Ignazio non si chiama Ignazio.
Deve il suo nome a un patronimico abnorme che si è divorato l’originale.
Con acrobazia speleologica recuperiamolo, per onor di cronaca e di firma: Luigi Alberto (con inchino).
Ignazio nabbe (direbbe lui) nel 197x a Cattolica, stabilendosi da qualche parte in quel lungo budello che è Via Emilia Romagna, e prendendo precocemente possesso di un vasto sostrato di chiasmi e artifici dialettali cattolichini con cui, più tardi, ordirà pazientemente il suo disegno di sottomissione del mondo linguistico a lui circostante, spingendosi cioè fino alle inferriate dell’avita magione e lambendo il marciapiede antistante. Nasce così, con una punta di sfrenata ambizione, il gergo ignaziato o “ignese” secondo alcuni autorevoli agiografi.
Ignazio è un vero intellettuale ma è pudico e non lo ammetterà mai, nemmeno sotto cruenta tortura. Emigrato in Francia intorno alla metà degli anni ’90 e ivi affermatosi come insegnante di greco e latino, e perfino letteratura francese (ai francesi), peregrinando da Lille alla Metropoli Parigina, fino ad Avignone per fare trionfalmente ritorno sulle rive della Senna con un serto di alloro Sorbonese, un codazzo di discepoli squinternati e un ingaggio da titolare nel CNRS per la stagione 2007 – 2008.
Ignazio è fatto così: dopo due minuti di permanenza in landa transalpina conosceva il francese meglio di Vincent Cassel rimanendogli un pelino inferiore soltanto nella scelta della compagna di vita: a Cassel la Bellucci, a Ignazio un vecchio santino sgualcito di Guillame Budé contro cui oscenamente strusciarsi nelle tremende notti di tentazione.
Ignazio è incidentalmente comunista (scusate il termine). Un comunismo irsuto, trasudante trippa al cartoccio e poesie Einaudi in stile libero. Quel genere di comunismo che bascula tra i 3 stomaci di un ruminante e partorisce un pamphlet antipapista dalla trattazione ammiccante e sornionamente gaglioffa, con una lacrima di eresia e una spruzzata di Pepponismo allo stato brado.
Ignazio stamattina sarà al Parco Navi per tenere una conferenza sulla sostanza di Dio e di Suo figlio. Direi che per un comunista anticlericale mangiapreti come lui non c’è male. Complimenti anche agli organizzatori dell’evento per la scelta oculata.
L’evento vedrà la partecipazione anche di Lucia De Nicolò, già apparsa su questo blog per il suo libro su Cattolica. La conferenza inizia alle 9.00, cioè tra 8 ore visto che adesso è l’una, e ancora son qui a straparlare.
C’è solo da sperare che ai prelati e agli alti papaveri ecclesiastici presenti non cada l’occhio sulla bibliografia dell’oratore. Ma credo che brioche e cappuccino faranno la loro parte nell’allontanare questo pericolo. Ora che il pamphlet sarà stampato da un editore di Napoli prevedo un tour de force di Ignazio presso le corti dei talk-show di mezza Italia, fino a Telerimini su su fino a Videolina e TeleNorba, ogni volta con condanna in tralice del conduttore e mormorii scandalizzati tra le signore in sala.
Ignazio non so come chiudere questo post quindi basta qui. Domani mattina non sarò alla tua cavalcata teologica, mi farai sapere.
Categoria: Cattolichini
Ray
Ray è una montagna di cane. Ottanta chili di notte pelosa in movimento. Di primo acchito ricorda Nebbia, il San Bernardo di Heidi, di cui ne ricalca l’austera indolenza e le pose statuarie.
Ray è incidentalmente un cane che salva le persone dal mare, suo malgrado. E’ stato addestrato per farlo e sta faticosamente imparando a svolgere il suo compito terreno con l’aiuto di un istruttore e dei suoi due padroni, una coppia di veraci bagnini romagnoli, Marco e Chiara.
Lo si può ammirare in azione presso i bagni 7, ogni sera all’ora del crepuscolo, quando la torma di bagnanti sta facendo scorrere milioni di metri cubi di acqua sotto altrettante docce di hotel mentre i bagnini stanchi e piegati dalla fatica chiudono gli ultimi ombrelloni, ramazzano le ultime cicche dalla sabbia e intanto pensano alle triangolazioni cosmogoniche e alla fresca brezza purificatrice di settembre i cui prodromi giungono sotto forma di refoli e piccoli baci dalle spume delle onde infrante e agonizzanti sulla battigia.
Ray scruta il mare abbracciandolo con uno sguardo umido, poi fiuta i racconti che il vento selvaggiamente gli propina sotto forma di odori e effluvi raminghi. Miliardi di particelle, ognuna con un suo recapito, ognuna destinata ad una precisa collocazione, ognuna filtrata e rilasciata dalle due enormi nari che si chiudono e si aprono come due diaframmi ben oliati.
Di colpo ecco all’orizzonte due braccia disperate che invocano aiuto. Ray si alza con l’efferata lentezza di un salvatore svogliato. Lancia quel languido sguardo che bagna il mare e lo rende reale. Poi zampettando circospetto s’immerge e si dirige verso l’istruttore che continua a mulinare gli arti superiori come un elicottero impazzito.
Ray sa che non appena toccherà con zampa l’uomo la sua missione sarà quasi compiuta. Ma il suo tragitto vero, quello nascosto agli occhi di tutti, rimarrà una selva di deviazioni a perdersi tra cielo e mare, là dove ogni calma concentra la sua essenza imprendibile.
Le ho incontrate lunedì mattina.
Tiziana Costa e Camilla Muccioli sono madre e figlia con un unico denominatore: la pittura. Mi sono fatto loro incontro, appena le ho notate varcare la soglia. Si sono guardate un pò in giro, poi hanno fatto qualche cenno di assenso e mi sono tranquillizato, il vernissage si farà!
Abbiamo cordialmente discusso circa le modalità di organizzazione per un’esposizione delle loro opere che si terrà nella hall dell’Hotel Boston, con inaugurazione stabilita per domenica 27 maggio, alle ore 16.00. Abbiamo parlato della disposizione dei quadri, del setup dell’evento in sè, degli inviti da diramare e di tante altre piccole cose.
In tutto questo parlare mi ha piacevolmente stupito la naturalezza di queste due donne nel parlare della loro arte. Conoscevo già Tiziana Costa e alcuni dei suoi quadri in cui ho sempre ammirato la ricerca poetica nelle figure anatomiche (spesso di donna), il viaggio in profondità nel tentativo di sfiorare qualche corda segreta dell’animo umano attraverso un meccanismo perfetto di geometrie e figure umane. Si tratta di una pittura introspettiva, ma mai fine a se stessa, con un messaggio nascosto che attende di essere colto e assaporato.
Non conoscevo invece sua figlia, Camilla Muccioli, e per me è stata una sorpresa. L’arte di Camilla è sensibilmente diversa da quella di sua madre, eppure in qualche modo mi appare complementare e persino funzionale all’arte di Tiziana. Almeno è quel che mi è parso esaminando alcune sue opere in rete e dai cataloghi di mostre passate. Camilla ha un approccio obliquo alla narrazione iconografica e arriva a dialogare con lo spettatore attraverso un puro sentimento di stupore, di distacco da ogni certezza. Chi guarda le opere di Camilla si trova, volente o nolente, a dover sostenere una conversazione dai contorni metafisici con l’opera a se stante, addentrandosi in un campo dove scompaiono molti riferimenti, e in rapida sequenza ci si ritrova indifesi, in una sorta di nudità semiotica di fronte all’evento artistico.
Mentre Tiziana mi ha già affidato qualche dipinto sono in attesa di due grandi opere di Camilla che avrò cura di sistemare nella parete nord della Hall, quella più spaziosa. Credo si tratti di quadri importanti, ma avrò occasione di riparlarne e di mostrare qualche altra immagine delle opere.
Per il momento mi rimane questa piacevole sensazione di fibrillazione, non mi accadeva da tempo, può bastare per ora.
[in apertura un’opera di Camilla Muccioli: “No”, 2005]
L’uomo che cammina
Da qualche anno a Cattolica c’è un uomo che cammina. E non si ferma mai. E’ un omino minuto, magrissimo, biondo, con una chioma stempiata e fluente, lanosa e quasi cotta dalle intemperie a cui è esposta, due occhi chiari che vedono e accolgono le distanze in attesa.
Lo si vede scarpinare per chilometri e chilometri, seguendolo oziosamente con lo sguardo mentre ci si trova in fila con l’auto, oppure distrattamente cogliendolo con la coda dell’occhio mentre si è infervorati in una discussione ad un tavolo del Bar Peledo’s, oppure trovandocelo di fronte mentre si sta faticosamente traslando la gravosissima spesa uscendo dal supermercato Diamante. Lo si incontra dappertutto. Lungo lo stradone che conduce a San Giovanni in Marignano, in Viale Carducci, in Viale Dante, sul lungomare Rasi Spinelli, in Piazza Primo Maggio, nel bel mezzo del Parco della Pace, in via Macanno, in Via Mazzini, davanti a Palazzo Mancini, davanti alla fioriera di Piazza Nettuno, in Via Curiel, in Via Corridoni, in via Prampolini, in Via Verdi, in piazza De Curtis, in Via Del Prete, in Via Matteotti, in Via Malatesta, mentre circumnaviga la rotonda “Welcome To Cattolica”, mentre dribbla le panchine di Piazza del Mercato (e non accenna a intenerirsi sulle note macinate in sottofondo da un Bocelli panteistico), mentre procede spedito sulla banchina del Porto puntando la Capitaneria per poi virare improvvisamente e strambare sullo Squero, mentre percorre l’anello intorno allo Stadio Calbi descrivendo un’orbita perfetta e lineare, come una Luna di Euclide.
Questo lungo elenco di toponimi, che a prima vista potrebbe passare per un noioso stradario di Cattolica, rappresenta in realtà il corpus dei miei ultimi personali avvistamenti dell’uomo-che-cammina che ho morbosamente iniziato ad annotare da tre mesi a questa parte.
Ma chi è l’uomo-che-cammina? Perchè non si ferma mai?
Inizialmente ricordo che l’uomo-che-cammina aveva fatto il suo debutto come uomo-che-pedala. Migrava disinvoltamente da una bici all’altra, a seconda della contingenza e del tipo di lucchetto, non curandosi certo del modello. Credo che più di un cattolichino si sia ritrovato a inseguirlo forsennatamente al grido di: “molla la mia bici, brutto #### [censura]”.
Poi dopo il periodo dello spinning l’upgrade al trekking estremo.
“E cammina cammina…”
Ciao uomo-che-cammina, continua a vegliare sulla città, continua a giustificarne l’essenza masticandola palmo a palmo, continua a volare tra i marciapiedi e a farci sentire fermi.
Immobili.
Mentre tu passi veloce e non ci guardi neppure.
La Zudrona
Questa storia incomincia nella parte più vecchia di Cattolica, nominata con una tautologia squisitamente romagnola “la Cattolica Vecchia”. Un quartiere la cui anatomia si impernia sulla spina dorsale di Via Pascoli e si innesta solo in parte nel centro vero e proprio di Cattolica, sfiorandolo in Piazza Nettuno con una fugace carezza, per poi abbandonarlo a se stesso nell’algida perfezione di via Bovio. Una contrada avulsa dai patinati marciapiedi del centro rimodernato, una creatura sbrecciata che se ne sta acquattata nell’ombra, come i sostegni metallici dietro i Saloon di cartone che facevano da fondale agli spaghetti western. Questa storia non poteva che nascere là: dove le vie si fanno esili lombrichi che si avvolgono intorno a un’improbabile collinetta che culmina con l’erta di Piazza del Mercato Coperto, andando solo a lambire Palazzo Mancini, così come una tangente rincorre vanamente l’infinito.
La Zudrona abita qui dunque. Un buco di monolocale incastonato nel tessuto zuppo di storia della Cattolica Vecchia più ermetica e torbida, “là dove il sole non batte mai, nemmeno la domenica”. La Zudrona è un’anziana signora assediata dai gatti e dai ricordi e la sua casa brulica di aporie temporali. Vive con la figlia, la Zudrina, un asessuato aforisma di ragazza, non bella ma comunque remotamente idonea a sollevare dietro sè una murmure coltre di gossip, elemento di cui l’atmosfera romagnola risulta ferocemente satura. A tal punto che qualche Corifeo municipale ha da poco invocato a gran voce le targhe alterne per porre fine allo scempio inquinante. Le due donne agli occhi assetati dei concittadini risultano un binomio granitico che non ha relazioni con il mondo esterno nè si adopera per cercarle, circostanza quest’ultima che per il mondanismo cittadino risulta oltremodo abominevole, certamente da bolla di scomunica, quantomeno da anatema monitorio.
Incidentalmente la Zudrona emana un tanfo disgustoso, indecifrabile nel suo misterioso bouquet, eppure ugualmente letale. Quando la donna varca il sacro soglio di San Pio V – il duomo di Cattolica intitolato al santo pontefice cinquecentesco, patrono della città – e s’insedia nella sua solita panchina, tosto gli incarnati sfioriscono, le rose spampanano e i sommessi sorrisi si fanno di cenere muta. Un odore dolciastro è l’avamposto dell’esercito zudronico: ti illude, ti mette quasi a tuo agio, un relax vigile, con ogni riflesso all’erta e pronto a scattare. Poi ecco lo sfacelo di ogni percezione olfattiva, come il riso d’un bimbo, improvviso e senza scampo.
Sia detto per amore di verismo narrativo: la figlia è invece certo che non puzzi, o perlomeno resiste eroicamente. Il suo ph non si piega alla tirannia degli olezzi materni, ma ne è tenuto in cattività e giace inesplorato sul fondo dell’abisso.
Ma veniamo al punto. Da qualche tempo Bargnocla, il garzone del fornaio, si è innamorato della Zudrina e la tempesta di rosette, ciabattine e maritozzi. Al posto dei fiori, o dei cioccolatini. Una tempesta di glutine che si abbatte sul monolocale delle due donne come una dieta esplosa a mezz’aria. Un’orgia di miacetti, di strozzapreti, di spianate, di bomboloni caldi, di tagliolini, di filoni toscani, di panini alle noci, di sfilatini e baguettes.
Alla fine la Zudrona ha alzato bandiera bianca, più che bianca verrebbe da dire infarinata. E ha mollato la morsa rilasciando la figlia come un candido fazzoletto strappato dal vento. Vinta dall’età e dai farinosi tranelli del buon Bargnocla. E come ogni finale hollywoodiano che si rispetti anche qui spareremo un happy end da paura: la cartolina finale reca l’effigie della Zudrina biancoflautata mentre se ne esce dal biemmevù preso a nolo, scortata da una Zudrona zarina e first lady, regina e gran madre, che guarda e non guarda la folla che le fa ala sul sagrato. Bargnocla attende compunto, le efelidi che trillano al sole di maggio, un vestito inamidato di foggia surrealista.
Li lasciamo così: per amor di discrezione, mentre un brivido dilaga tra i nasi dei convitati e li costringe alle lacrime, diranno poi “di commozione”.
Ollivud
Ollivud era il cinema. Un uomo, un divo. Una faccia da baci che faceva trasecolare le donne, o meglio una certa categoria di donne: quelle giunte ad una certa stagionatura, per cui non era più ragionevole indovinarne l’età vista l’inefficacia di ogni più elementare inferenza basata sull’esperienza virile del maschio medio. Donne, si diceva, orrendamente sensibili al suo fascino d’impomatato ultra cinquantenne un po’ pingue ma con una carriolata di charme che rilasciava nell’aere come un odore felino di randagio in calore. Un ormone psichedelico che vorticava su Cattolica e impazzava dal Porto al Ventena, dai Guaz ai Muntalèt, e indugiava sui visi imbellettati delle femmine carezzandole come seta ipnotica e maliarda, lasciandole nell’empasse di una carica erotica pulsante, insostenibile.
Ollivud non aveva usurpato il proprio soprannome ma se l’era guadagnato sul campo. Recitando. Comparsando. Presenziando. Partecipando. Apparendo. Film di varia levatura, tutti girati in un raggio di non più di 5 chilometri da casa sua. Non che Ollivud non avesse provato a sprovincializzarsi arrivando persino a varcare i dorati cancelli di Cinecittà nella speranza di un’infima particina, ma senza successo. La sua effimera gloria di celluloide l’aveva vissuta esclusivamente sul suo terreno. Il suo maggior vanto era una fugace parte in un film di Bellocchio girato a Cattolica a cavallo degli anni ’90. Una sola scena in verità, senza battute, pochi secondi di estasi mimica. Una sola scena, ma molto intensa, di più: memorabile. L’inquadratura si apriva su un cortile affollato di vecchi cadenti, incanutiti, curvi sulle proprie vite, una carrellata lentissima, esasperante. Poi con violenza la cinepresa strambava spostando il suo occhio languido su di lui. E Ollivud si apriva al dramma come un arpeggio di chitarra repentino e bellissimo, e vorticava al centro della scena come un derviscio, e ad un tratto apriva le braccia quasi liberato dalla soma esistenziale, da ogni umano fallimento, e pareva… volare… e librarsi leggero… su… su… lieve… fino alle profondità nascoste del cielo.
Ollivud, penso tu sia arrivato ora. Che fardello per noi che restiamo pensarti più leggero dell’aria, più vago d’un lembo di nube, aperto spazio tra gli spazi. Ciao Ollivud.
Memorie cattolichine
“Da la Vantena in giù” è l’ultima fatica letteraria (us fa par dì, dice lui) di Peter Tonti, cattolichino verace, che non è sbagliato definire coscienza storica della città, magari insieme ad altri due insigni annalisti della Regina quali Lucia De Nicolò e Guido Paolucci.
Il libro è un compendio di poesie dialettali dell’autore, brani di vita vissuta e anedottica sparsa, fotografie d’epoca e memorie di una topografia e di una toponomastica inghiottite dal vortice degli anni e sopravvisute quasi esclusivamente nell’oralità degli anziani e nei loro ineffabili intercalari dialettali. Inutile dire che pur nel suo apparente caos strutturale il libro risulta estremamente godibile e perfino affascinante nei suoi rimandi storici, collocandosi come importante riferimento per un recupero di tradizioni e uomini che hanno fatto di Cattolica quello che attualmente è: uno dei più importanti centri turistici di tutta la costa adriatica.
In verità alcuni aneddoti sono talmente esilaranti che non posso esimermi dal pubblicarli, eccone un paio:
“Voi tutti avrete sentito parlare di Gianèn, dunque Gianèn ha conosciuto la sua futura moglie sotto una pioggia di bombe e granate, mentre il fronte passava sul fiume Conca dove i due erano sfollati. Tanto tempo dopo, dopo l’ennesima lite con la moglie, Gianèn andò in Comune a chiedere i documenti per fare la richiesta dei danni di guerra. Quando l’impiegato gli chiese che tipo di danni avesse subito, Gianèn candidamente rispose: – Che dann ca ho avù? Più che dann l’è stè na catastrofe! Ho cnusù la mi moj drent el rifugio!” [n.d.t. Che danni ho avuto? Più che un danno è stata una catastrofe! Ho conosciuto mia moglie dentro il rifugio!]
“Un giorno del 1943, i tedeschi misero due civili, Bagòn e Fissciòn, di guardia al ponte di ferro affinchè si evitassero eventuali sabotaggi, dando loro una parola d’ordine per i controlli da parte delle pattuglie tedesche. Al primo controllo notturno, alla richiesta della parola d’ordine, Bagòn, che era rimasto solo, perchè il collega se ne stava tranquillamente all’osteria, rispose: – Me an la ho, u la ha Fissciòn drenta la Luna” [n.d.t. io non ce l’ho, ce l’ha Fissciòn dentro l’Osteria della Luna]
Concludo il mio omaggio al libro di Peter con un altro passo estrapolato dal magma ribollente di “Da la Vantena in giù”, si tratta di una lista di soprannomi dialettali e relativa libera (e mordace) traduzione peteriana:
- BESAMADON – Uno molto pio
- MUCLON – meno pio
- CITRATO – uno rinfrescante
- SPUDAFOGH – uno molto incazzareccio
- LA BELA – gradevole nell’aspetto
- SCARAFON – dall’aspetto meno gradevole
- CICHET – che beveva
- CHERUBEN – molto buono
- AL DIAVLET – molto cattivo
- GENEROS – buono d’animo
- CIMSEN – parassita
- BUSCON – che incassa
- CURIER – portaordini
- BOTA AD FER – che da sicurezza
- BAZOT – uno molle
- AL BOV – uno con molta forza
- FADIGON – gran lavoratore
- AL BOT – lamentoso
- CIUFLET – che zufolava
- FISSCION – che fischiava
[La fotografia di inizio post fa parte dell’archivio Belemmi. E’ una foto di gruppo di cattolichini e turisti sulla spiaggia di Cattolica nell’estate del 1929, mio nonno Attilio è il primo accosciato con i pantaloncini bianchi]
Mazzola
Mazzola è un predestinato. Nel nome in primo luogo, che fonde e avviluppa due diversi significati che lo rappresentano coralmente: in una pirotecnica crasi semantica. Mazzola, il pesce, perchè pescatore; Mazzola, il giocatore di calcio, perchè interista. Questo è il sublime assemblaggio onomastico che solo un dialetto e il suo sostrato vivente di persone parlanti, che vi innestano ironia ed emozioni, può partorire. Un capolavoro lessicale. Una sintesi magistrale che campisce in tre sillabe un uomo, la sua vita, le sue passioni. Il pescatore, l’uomo appassionato di calcio, la persona un po’ tarda, quest’ultima sfumatura ricavabile dal detto: “tè na testa com na mazola”, hai una testa come una mazzola, ossia di persona dall’enorme capoccia pari a quella del pesce omonimo (che è in effetti alquanto sproporzionata rispetto al resto) e tuttavia assai scarsa di capacità cerebrale.
Mazzola è trasversalmente un bell’uomo. Sulla sessantina, con un viso obliquo e ineffabile, occhi sottili, un sorriso sgangherato e sinuoso che racconta favole e fa innamorare le donne. Mazzola è come un Bogart inabissato, gira sempre con un trench sgualcito che sa di pesce e di nafta, e scruta tutti in tralice, da sotto il bavero svolazzante. Quando lavora salpa di notte con “pneuma”, il suo peschereccio, e resta via anche un paio di giorni, da solo, a combattere le latitudini marine e le insidie dell’infinito.
Mazzola ormai non è più quello di un tempo. E’ caduto ostaggio, dicono, di una matrona bielorussa, una cacciatrice di uomini come ce ne sono tante. La diavolessa lo tiene al guinzaglio e gli ha imposto un guardaroba da codice penale e un sorriso omologato.
Di lui giunge solo qualche notizia frammentaria, si parla di un televisore al plasma da 50 pollici, di vestiti lindi e profumati, di una bifamigliare in periferia. “Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore, mentre fa correr via la macchina a vapore”.
[brano tratto dalla canzone di Francesco Guccini: “La locomotiva”]
Rampino
Rampino uomo carismatico, gran oratore e gran bevitore, nuovoloso di tabacco, archetipo dell’uomo da bar. Uno che fa guizzare l’infinito sulla schiuma della birra, con un sorriso egizio. Quando comincia a parlare il brusio di fondo va in dissolvenza, un precipizio che lambisce la soglia bianca del silenzio.
Rampino, chiamato così per via della sua magrezza, dando credito al detto “secco come un rampino”.
Rampino è una specie di predicatore laico. Nei bar di Cattolica è ben conosciuto ed appena lo si incrocia d’istinto gli occhi si abbassano sul bicchiere. Vive in un casolare nell’entroterra, nei dintorni di San Clemente o di Morciano, sul fatto c’è incertezza, ma la sua giornata la trascorre a zonzo per le strade della Regina. Lui dice: in missione.
Rampino ha una faccia da prete, uno sguardo agnostico e le restanti parti del corpo tendenzialmente prudenti nel confessarsi. Come ogni prete ha un Dogma e un sibillino Miele per spalmarne gli osanna. Come ogni Notabile ha i suoi titoli onorifici per scardinare ogni umana diffidenza: Reverendissimo Sacerdote del Pio Respiro e Supremo Custode del Mistico Afflato della Redenzione Celeste, esploso tutto d’un fiato, come un rap in guisa di grimaldello dialogico.
Proprio stamane ho assistito ad una delle sue omelie.
Arringava la folla dei clienti e lo sentivo inarcarsi sulla lama del suo stesso vocione. Suoni pensati che nascevano in qualche regione miracolata dell’esofago, si stendevano e slittavano per ogni vena o canale o cunicolo che li conducesse verso l’alto, sfrangiandosi e complicandosi tra denti e lingua, infine l’ultima disperata unghiata al palato prima di volare a tracciare una grammatica tonitruante, un delirio prestabilito.
Rampino ha i suoi Discepoli, pronti a difenderlo a spada tratta. Pare stia lavorando con qualcuno di loro alla stesura del Dogma, per tramandarne i crismi e la liturgia, per recintarne la dottrina.
Rampino… se t’imbatti in queste righe tienti in tasca l’anatema e sorridi di quel sorriso filiforme che solo tu fai balenare. E perdona il mio scarso fervore, se puoi.
Fragola
Pochi sanno che a Cattolica vive un misantropo barricato nel suo buen retiro e nascosto al mondo.
Questo Orco Mangiabambini è il mio amico Fragola. Una persona che non ha relazioni con la realtà. Per dirla tutta credo di essere l’unica persona che interagisce con lui. Temo che la sua esistenza sia ignorata persino dalla macchina burocratica che si nutre dei dati anagrafici di tutti noi e li espelle sotto forma di dati sensibili, plasmando uomini e codici.
Fragola non esiste. Fragola disegna e ascolta. Ha una sua semantica privata. Riempie intere risme di A4 con segni scarabocchiati alla rinfusa, e parla molto raramente.
Disegna. Ascolta. E registra. Possiede undici alti scaffali ricolmi di hard disk in cui vi sono registrate miliardi di parole, miliardi di comunicazioni, miliardi di conversazioni.
Fragola ha accesso a diversi satelliti di telecomunicazione. Ne ha pazientemente crackato le protezioni così come un minuscolo ago si insinua in una pallina di cera.
Fragola è un enorme orecchio invisibile. Ascolta. Registra. E disegna.
Migliaia di fogli solcati da ghirigori infantili, oscuri. Un messaggio che nessuno arriverà mai a decifrare.
Fragola ha deciso di riunire tutte le parole del mondo. Tutto il linguaggio orale. Vuole creare un Golem di Parole, l’Essere Dialogico perfetto, il Supremo Discorso. Cosa ne voglia fare di questa creatura non so.
So solo che quando sarà pronto uscirà dalla tana e parlerà.
E sarà ascoltato.