Questa storia incomincia nella parte più vecchia di Cattolica, nominata con una tautologia squisitamente romagnola “la Cattolica Vecchia”. Un quartiere la cui anatomia si impernia sulla spina dorsale di Via Pascoli e si innesta solo in parte nel centro vero e proprio di Cattolica, sfiorandolo in Piazza Nettuno con una fugace carezza, per poi abbandonarlo a se stesso nell’algida perfezione di via Bovio. Una contrada avulsa dai patinati marciapiedi del centro rimodernato, una creatura sbrecciata che se ne sta acquattata nell’ombra, come i sostegni metallici dietro i Saloon di cartone che facevano da fondale agli spaghetti western. Questa storia non poteva che nascere là: dove le vie si fanno esili lombrichi che si avvolgono intorno a un’improbabile collinetta che culmina con l’erta di Piazza del Mercato Coperto, andando solo a lambire Palazzo Mancini, così come una tangente rincorre vanamente l’infinito.
La Zudrona abita qui dunque. Un buco di monolocale incastonato nel tessuto zuppo di storia della Cattolica Vecchia più ermetica e torbida, “là dove il sole non batte mai, nemmeno la domenica”. La Zudrona è un’anziana signora assediata dai gatti e dai ricordi e la sua casa brulica di aporie temporali. Vive con la figlia, la Zudrina, un asessuato aforisma di ragazza, non bella ma comunque remotamente idonea a sollevare dietro sè una murmure coltre di gossip, elemento di cui l’atmosfera romagnola risulta ferocemente satura. A tal punto che qualche Corifeo municipale ha da poco invocato a gran voce le targhe alterne per porre fine allo scempio inquinante. Le due donne agli occhi assetati dei concittadini risultano un binomio granitico che non ha relazioni con il mondo esterno nè si adopera per cercarle, circostanza quest’ultima che per il mondanismo cittadino risulta oltremodo abominevole, certamente da bolla di scomunica, quantomeno da anatema monitorio.
Incidentalmente la Zudrona emana un tanfo disgustoso, indecifrabile nel suo misterioso bouquet, eppure ugualmente letale. Quando la donna varca il sacro soglio di San Pio V – il duomo di Cattolica intitolato al santo pontefice cinquecentesco, patrono della città – e s’insedia nella sua solita panchina, tosto gli incarnati sfioriscono, le rose spampanano e i sommessi sorrisi si fanno di cenere muta. Un odore dolciastro è l’avamposto dell’esercito zudronico: ti illude, ti mette quasi a tuo agio, un relax vigile, con ogni riflesso all’erta e pronto a scattare. Poi ecco lo sfacelo di ogni percezione olfattiva, come il riso d’un bimbo, improvviso e senza scampo.
Sia detto per amore di verismo narrativo: la figlia è invece certo che non puzzi, o perlomeno resiste eroicamente. Il suo ph non si piega alla tirannia degli olezzi materni, ma ne è tenuto in cattività e giace inesplorato sul fondo dell’abisso.
Ma veniamo al punto. Da qualche tempo Bargnocla, il garzone del fornaio, si è innamorato della Zudrina e la tempesta di rosette, ciabattine e maritozzi. Al posto dei fiori, o dei cioccolatini. Una tempesta di glutine che si abbatte sul monolocale delle due donne come una dieta esplosa a mezz’aria. Un’orgia di miacetti, di strozzapreti, di spianate, di bomboloni caldi, di tagliolini, di filoni toscani, di panini alle noci, di sfilatini e baguettes.
Alla fine la Zudrona ha alzato bandiera bianca, più che bianca verrebbe da dire infarinata. E ha mollato la morsa rilasciando la figlia come un candido fazzoletto strappato dal vento. Vinta dall’età e dai farinosi tranelli del buon Bargnocla. E come ogni finale hollywoodiano che si rispetti anche qui spareremo un happy end da paura: la cartolina finale reca l’effigie della Zudrina biancoflautata mentre se ne esce dal biemmevù preso a nolo, scortata da una Zudrona zarina e first lady, regina e gran madre, che guarda e non guarda la folla che le fa ala sul sagrato. Bargnocla attende compunto, le efelidi che trillano al sole di maggio, un vestito inamidato di foggia surrealista.
Li lasciamo così: per amor di discrezione, mentre un brivido dilaga tra i nasi dei convitati e li costringe alle lacrime, diranno poi “di commozione”.
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