E’ di questi giorni la notizia che la ristrutturazione del pontile di Cattolica situato di fronte ai bagni 51, si farà. Ora come ora la struttura viene infatti giudicata “turisticamente improponibile” e c’è già un embrione di progetto per il rilancio. Si prevede infatti una demolizione dell’attuale costruzione e l’edificazione di una struttura a mezzaluna che accorpi parte della scogliera antistante e si estenda verso il mare aperto. L’idea è quella di creare una sorta di centro commerciale a pelo d’acqua. La casalinga potrà così espletare i suoi acquisti giornalieri in costume da bagno e una volta terminato lo shopping lasciarsi dolcemente scivolare tra i flutti dell’Adriatico avvalendosi, si suppone, di apposite buste per la spesa autogonfiabili e dotate di piccolo motore da diporto con batteria al litio, per poter far rotta verso l’avita magione senza fatica alcuna.
A inizio post una foto del pontile scattata qualche minuto fa.
La sera di Ferragosto la spiaggia di Cattolica è una immensa riserva di caccia per il Manzo romagnolo da accoppiamento. Tra una folla oceanica di fanciulle con il naso all’insù e un vocìo balanico di ooohhh si aggira questo prototipo da riproduzione, questa spietata macchina da pastura, questo sfavillante cyborg di Acqua Velva e ormoni.
Il Manzo romagnolo non segue l’evolversi dello spettacolo pirotecnico, oh no, non è neppure intenerito da un mare screziato di luna e arabeschi di luce. Si mantiene freddo, lucido, calcolatore. Sceglie con cura la sua preda e descrive intorno ad essa cerchi sempre più stretti, mentre l’ignara vittima punta il dito al cielo ridendo sguaiata, ecco appressarsi furtiva un’ombra tra le ombre. Oh quanta sublime perfezione in quella spoglia ma pregnante gestualità riproduttiva. Quanti cicli generazionali di Manzi hanno darwinianamente affinato quei cenni, fino alla soglia della Pastura Assoluta. E per la preda non ci sarà il tempo neppure di accennare una debole resistenza, sarà subito tra le sue virili, possenti braccia manzesche.
[VOCE FUORICAMPO] E tu, vorresti che tutto questo finisse? Sei al corrente di quanti pericoli oggi minacciano l’ecosistema del Vitellone romagnolo? Emancipazione femminile, videogames, internet, moralizzazione dei costumi, voti di castità, incremento esponenziale di Suore, tutto ciò ha ridotto questa gloriosa razza a ormai pochi, sparuti esemplari che si aggirano sperduti in un mondo ostile.
Proteggiamo i nostri Vitelloni, proteggiamoli dal rischio dell’estinzione della specie!
Oggi, questa splendida bestia potrebbe non esserci più, e tu cosa fai per impedirlo? Adotta un Vitellone! Fallo adesso! E anche tu potrai dire: sì, ho salvato un Manzo romagnolo da accoppiamento, e ne vado fiero!
I nidi di Rondine della signora Nucci sono un varco dimensionale. La scoperta è stata fatta di recente ed è attualmente tenuta sotto un riserbo assoluto e impenetrabile dagli organi preposti alla sicurezza nazionale. E’ capitato tutto all’improvviso e ha colto tutti impreparati, anche se qualcuno aveva da sempre sospettato che ci fosse qualcosa di più che banale prosciutto e funghi prataioli in quella pasta al forno, qualcosa di sovrannaturale e di arcano.
Era un giovedì di luglio e il bimbo Gigi aveva appena terminato il suo secondo bis in sala da pranzo. Per lui si trattava di ordinaria amministrazione e, anzi, si apprestava a concedere un tris. Diego, il cameriere, portò la terza porzione di Nidi di Rondine e in tralice schioccò un cenno di ammirazione a Gigi, nessuno riusciva a capire come un bimbo così esile riuscisse a fagocitare tanto cibo. Quando Gigi affondò la forchetta nell’involucro di pasta croccante il suo campo visivo al margine del piatto mutò radicalmente. Gigi alzò lentamente lo sguardo e al posto della zia, seduta di fronte a lui, colse un paesaggio lunare, spaziando in un immensità brulla e deserta. D’istinto sbatte le palpebre e ricontrollò: niente da fare… La sala da pranzo, il piatto, la candida tovaglia, tutto era scomparso salvo il piatto dei Nidi di Rondine e la forchetta che teneva in mano in un gesto congelato, come un automa in standby. Gigi si scosse, emise un profondo sospiro e mosse qualche passo in quella desolazione: dovunque rocce sbiadite e terra grigiastra. Un orizzonte che si perdeva in un punto di fuga inafferrabile, uno squallido surrogato d’Infinito che dava la nausea. Con il piatto dei Nidi ben saldo nella mano destra proseguì la sua esplorazione e camminò per un tempo indefinibile. Camminò per ritrovare gli stessi sassi, la stessa polvere, la stessa identica terra che aveva calpestato poco prima (o tanto prima?).
Infine fu vinto dalla stanchezza e dal tenue profumo dei Nidi di Rondine che l’aveva accompagnato in quel viaggio circolare. Si sistemò su una grande roccia levigata e cominciò a mangiare con gesti lentissimi, curandosi di trattenere il sapore il più a lungo possibile.
Ogni boccone fu un’Era Geologica, un Universo che invecchiava, un lungo interminabile Nido di Rondine che si avvolgeva su se stesso come un nastro di Moebius.
Chiunque in questi giorni si trovi a percorrere il lungo e deserto litorale di Cattolica avrà come silente compagno di viaggio decine di giganti addormentati che si stagliano pigramente all’orizzonte.
Cattolica e i suoi hotel sembrano acquattati in un torpore fiabesco, quasi sovrannaturale. Migliaia di finestre, come orbite cieche, si aprono afone verso il mare, in un silenzio di cemento e polvere.
Mi viene da sorridere se penso che ognuno di questi alberghi cela in sè un’epopea lontana eppure presente e viva in quel profilo che incombe sull’azzurro, occultata nelle profondità segrete delle fondamenta, fluida come linfa vitale che scivola nelle vene e ne sorregge l’enorme stazza.
Se penso al mio Hotel ad esempio mi perdo nei rivoli di una storia che mi affascina e di cui continuamente cambio i parametri, quasi una sfida ai severi crismi della Storia per conferirle i sigilli più consoni della Fiaba. L’Hotel Boston deve il proprio nome allo spirito pionieristico del bisnonno “Rogg” che emigrò giovanissimo negli States (a Boston, appunto) alla ricerca di gloria e denaro, un lupo affamato di vita e un seme gettato nel turbine del Nuovo Mondo che si spalancava come un abisso di meraviglie, come un’incognita impossibile. Mi chiedo cosa provassero questi uomini mentre si lasciavano alle spalle la Realtà stessa per imboccare la via del Nulla, un’Idea nascosta da un oceano, irrisolta, inconoscibile.
Proprio ieri sera mi è capitato di assistere al film “Nuovomondo” di Emanuele Crialese (cfr. qui), film splendido in cui una famiglia siciliana percorre le tappe del viaggio catartico che la strapperà all’aspra vita campestre per un mondo remoto di cui sfuggono perfino i contorni, un mondo che per garantire l’accesso alla Grotta delle Meraviglie esige matrimonio, sanità fisica e intelligenza (perche la stupidità è contagiosa e inquina la razza). Ellis Island diviene un non-luogo, limbo di disperati che fluttuano in attesa di un visto d’ingresso.
E Rogg tornò da quel pianeta proibito… Tornò per realizzare il suo disegno. L’Hotel Boston da chimera radicata nel suo immaginario, nel ’54 prese forma e sostanza, a Cattolica, in Viale Carducci. A inizio post se ne può osservare il primo depliant pubblicitario del 1955, un caro cimelio di cui non conoscevo l’esistenza, recentemente avuto da un anziano signore inglese che fu tra i primi clienti.
Grazie nonno Rogg per il tuo coraggio, per il tuo indomito sogno.
A metà degli anni 80, e per un buon lustro, gli annali dell’Hotel Boston registrano l’interregno della aiuto-cuoca Lina, la donna che parlava alle padelle. Una donna maliarda, con un portamento fiero e un sorriso beffardo e invisibile, retaggio di un’età scomparsa, sgretolata da pannolini e fustoni di detersivo, affondata tra i flutti della massificazione e delle mode omologanti.
Ma la Lina, eh lei resisteva, eccome se resisteva… La vedevi arrivare al lavoro in pompa magna con la sigaretta in fluttuante bilico, tra labbra e vuoto d’aria. Arrivava prestissimo quando le ombre della notte stringevano ancora d’assedio l’Hotel e dalla strada si percepiva solo il ciancolare di qualche gatto randagio o i pensieri inestricabili di un ubriaco disilluso dalla nottata e dalle geometrie marine.
E la Lina parlava alle sue padelle, le rassicurava, le confortava, le incoraggiava, in un flusso verbale ammalliante e ipnotico che scivolava tra le pareti della cucina come una nenia d’altri tempi. Chiunque si fosse trovato all’ascolto avrebbe di certo colto l’aspetto solenne e inevitabile di quel dialogo. La Lina era così: tutto ciò che faceva, anche la più assurda delle azioni, assumeva un’aura di naturalezza, un rassicurante gesto teso a portare armonia tra il caos, ordine nel garbuglio gaddiano delle cose. Ecco, la Lina era forse un Demiurgo, un portatore di pace, un traghetto che trasportava i concetti e gli assiomi del mondo delle Idee calandoli dolcemente nel Sensibile. Quanta pace in quei pentoloni, quanta luce…
Ciao Lina.
Il Rito della Porchetta
La porchetta era una liturgia corredata di un rigidissimo rituale a cui ci si adeguava religiosamente. Cominciava tutto con l’apparizione di questo ometto calato giù da chissà quale scannatoio che si presentava come “Gino, l’uomo del maiale”, titolo che si auto-attribuiva declamandolo con l’enfasi di un Mistico Sufita. Le sue improvvise apparizioni erano fonte di continuo subbuglio in cucina perchè Gino era un po’ come Gommaflex, nemico di Alan Ford, si mimetizzava perfettamente rendendosi invisibile ai mortali, per poi in un attimo apparire annunciando: “è arrivato Gino, l’uomo del maiale!” tra coronarie che saltavano, capelli che si ingrigivano e imprecazioni dialettali di ogni tipologia.
E questo Gino la porchetta la sapeva davvero fare: nutriva personalmente i suoi maiali con bacche selvatiche groenlandesi e bocciuoli di mandorlo giapponese coltivati secondo la filosofia Zen di Morishita Atsunami, leggendario giardiniere delle serre segrete di Osaka e quinto custode del Sacro Maiale Imperiale del basso Fujiama. Seguiva personalmente la crescita dei suoi pupilli, colmandoli di mille attenzioni, non ultima l’introduzione in porcilaia di un’Emeroteca, di un Centro Estetico e di un Postribolo ben fornito di maialine dalla bellezza esotica e conturbante.
Tramite questi ed altri terribili segreti il nostro Gino riusciva così ad ottenere una carne burrosa e fragrante che copiosamente avvolgeva i suoi maiali e aspettava solo di essere colta e assaggiata. E anche il pietoso officio dello scannamento veniva personalmente posto in atto dal nostro infallibile Gino che ne aveva annotato tutte le fasi salienti in un trattato proibito dal titolo “De exterminatione maialis”, libro bandito da ogni libreria e venduto ancora oggi al mercato nero dei bibliofili a peso d’oro.
E così, finalmente direbbe qualcuno, la porchetta di Gino faceva il suo trionfale ingresso nelle serate dell’Hotel Boston. Era un evento che metteva a dura prova le velleità dietiste dei (pochi) salutisti e che faceva la gioia di molti palati.
Franco, il direttore tuttofare dell’Hotel, tagliava il bestio con sapienti fendenti di coltellaccio ricavandone impalpabili fette di carne succosa e croccante. Una sacra polpa che non necessitava neppure di essere masticata, ma veniva assaporata con lenta e celestiale degustazione dagli ospiti estasiati.
Tutto questo avveniva mente Gino, in qualche sperduto anfratto dell’entroterra romagnolo, cullava e vezzeggiava i suoi adorati maiali attendendo spietato che la loro carne giungesse a magistrale maturazione.
Era un mondo difficile.
La Festa delle Cozze
Era un appuntamento ammantato di mito degli anni ’70 e ’80, una festa per rinverdire la leggenda del mitilo per eccellenza, la cozza. Più che una festa alla fine era una guerra, un epico scontro con le proprie capacità gastrointestinali, una battaglia all’ultimo sangue con i misteri inviolabili della digestione, una sfida alla gravità e alla Weight Watchers…
Un’infornata di cozze gratinate apriva le ostilità, poi giù con l’artiglieria pesante della zuppa di cozze e per finire gli obici che travolgevano ogni resistenza: spaghetti aglio, olio e peperoncino…
Ricordo che c’era questa mitica signora di Milano: la Gina, istrionica e sguaiata, sprizzava simpatia da tutti i pori e per ogni festa delle cozze aveva in serbo una nuova trovata. Ricordo i suoi travestimenti da Uomo in coppia con un signore travestito ovviamente da Donna, un signore entrato anch’egli a pieno titolo nell’Empireo dei Clienti dell’Hotel Boston, il leggendario monsieur Simon, vero e proprio mattatore delle serate bostoniane di quel tempo e tuttora cliente fedelissimo dopo 39 anni dal suo primo approdo in Hotel (!). Ricordo che quando si scatenavano quei due Viale Carducci di fermava e una piccola folla si radunava a seguire lo show. E di un vero e proprio show si trattava, condotto con magistrale ironia, mai volgare, mai becero, tutto giocato sulla presenza scenica e sul carisma dei due attori…
Tra una cozza e un bicchiere di Trebbiano quei due scivolavano leggeri e impalpabili, come due spiriti ubriachi di gioia trascinavano i presenti in un vortice di risate… Gesualdo Bufalino dice: “chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo”, e quei due credo ne fossero i leggitimi proprietari in quei tempi…
Un Mare d’Acqua
Era forse il 1979 o il 1980, qualche anno prima delle notti mundial di Pablito e soci…
Ricordo che in agosto quell’anno si era creata una strana miscela di clientela, una compagnia allegra e chiassosa che sfidava ogni notte il sonno di mio padre. Una brigata eterogenea e multietnica: dagli svizzeri ai belgi, ai francesi fino ad arrivare agli italiani de Milan e de Roma. In particolare c’era questa signora svizzera, Brigitte, che aveva un sorriso obliquo che si apriva d’improvviso in una risata cristallina che contagiava in un attimo tutta la terrazza dell’Hotel, come un virus potentissimo.
In quel Ferragosto, dopo il lauto pranzo, gli spiriti erano sopiti nel blando e faticoso esercizio della digestione e sembrava, proprio quel giorno di festa, che si riuscisse a superare indenni le goliardate di prammatica.
Non mi ricordo chi iniziò, anzi sì, fu mio padre, ancora lo rivedo con il pesante mastello colmo d’acqua che si avvicinava furtivamente alla svizzera e la inondava letteralmente, dando così il via ad una faida irrefrenabile. Ricordo ancora che ogni singolo cliente aveva un mezzo per lanciare acqua: chi si accontentava di un semplice bicchiere, chi esagerava con mastelli e secchi enormi, chi addirittura aveva introdotto una canna di gomma con tanto di spruzzatore a 6 atmosfere… L’acqua nella Hall era talmente fluente e copiosa che sembrava di trovarsi sul bagnasciuga, intenti in una camminata tra conchiglie e piccole onde… Non esisteva più nessuno che potesse vantare un centimetro quadrato di tessuto asciutto, e in quel preciso momento ebbi la sensazione che ogni persona presente: dai camerieri ai clienti al direttore, tutti per un attimo avessero chiuso gli occhi per annegare ogni incombenza in un mare d’acqua, un festante e ilare mare d’acqua fresca.
Amarcord
Amarcord, ovvero: “mi ricordo”.
Mi ricordo quando si era in braghine di tela e il mondo dei grandi sembrava alto e irraggiungibile… l’albergo era tutto il nostro mondo… Io e mia sorella Laura ci industriavamo a vendere vecchie copie di Topolino, Geppo, Tiramolla e il Corriere dei Piccoli, su un paio di cassette di legno per la frutta rovesciate e con un lenzuolino bianco come apparecchiatura, di fronte al vecchio dondolo (quanti amori sono nati su quel dondolo!), sul marciapiede di Viale Carducci, in quella che era nientemeno che “la terrazza al piano terra” dell’Hotel Boston. Quante contrattazioni su quei giornalini e quanti ponderati e sofferti scambi con qualche rarissima figurina Panini!
Mia sorella era molto più inflessibile di me per quel che riguardava il prezzo di copertina, per me c’era invece sempre spazio per uno sconto “sociale”, a seconda del tipo di cliente: che fosse un bambino (un buon 25% di sconto), un adulto (prezzo pieno) o financo un insegnante di scuola che ci veniva a trovare e non rinunciava a un Tex (prezzo maggiorato di un 40% -50%, a seconda della materia insegnata).