Rampino uomo carismatico, gran oratore e gran bevitore, nuovoloso di tabacco, archetipo dell’uomo da bar. Uno che fa guizzare l’infinito sulla schiuma della birra, con un sorriso egizio. Quando comincia a parlare il brusio di fondo va in dissolvenza, un precipizio che lambisce la soglia bianca del silenzio.
Rampino, chiamato così per via della sua magrezza, dando credito al detto “secco come un rampino”.
Rampino è una specie di predicatore laico. Nei bar di Cattolica è ben conosciuto ed appena lo si incrocia d’istinto gli occhi si abbassano sul bicchiere. Vive in un casolare nell’entroterra, nei dintorni di San Clemente o di Morciano, sul fatto c’è incertezza, ma la sua giornata la trascorre a zonzo per le strade della Regina. Lui dice: in missione.
Rampino ha una faccia da prete, uno sguardo agnostico e le restanti parti del corpo tendenzialmente prudenti nel confessarsi. Come ogni prete ha un Dogma e un sibillino Miele per spalmarne gli osanna. Come ogni Notabile ha i suoi titoli onorifici per scardinare ogni umana diffidenza: Reverendissimo Sacerdote del Pio Respiro e Supremo Custode del Mistico Afflato della Redenzione Celeste, esploso tutto d’un fiato, come un rap in guisa di grimaldello dialogico.
Proprio stamane ho assistito ad una delle sue omelie.
Arringava la folla dei clienti e lo sentivo inarcarsi sulla lama del suo stesso vocione. Suoni pensati che nascevano in qualche regione miracolata dell’esofago, si stendevano e slittavano per ogni vena o canale o cunicolo che li conducesse verso l’alto, sfrangiandosi e complicandosi tra denti e lingua, infine l’ultima disperata unghiata al palato prima di volare a tracciare una grammatica tonitruante, un delirio prestabilito.
Rampino ha i suoi Discepoli, pronti a difenderlo a spada tratta. Pare stia lavorando con qualcuno di loro alla stesura del Dogma, per tramandarne i crismi e la liturgia, per recintarne la dottrina.
Rampino… se t’imbatti in queste righe tienti in tasca l’anatema e sorridi di quel sorriso filiforme che solo tu fai balenare. E perdona il mio scarso fervore, se puoi.
Dal 28 aprile fino al 1 maggio riapre i battenti Cattolica In Fiore, la rassegna floreale e botanica che coinvolge tutte le principali arterie del centro cittadino precipitandole in un turbinio di clorofilla e fotosintesi.
Per l’occasione sono attesi espositori da ogni serra d’Europa. In particolare quest’anno l’attesa è focalizzata su due standisti di chiarissima fama che onoreranno della loro presenza la manifestazione. Si tratta nientemeno che dei signori Wallace & Gromit, illustri vivaisti inglesi e ingegnosi anti-pesto. Il più assoluto riserbo è mantenuto sulla creazione vegetale che presenteranno alla kermesse cattolichina, tuttavia qualcosa è trapelato sui voraci tabloid d’oltremanica. Pare che la creatura arborea in questione abbia a che fare con una Zucchina Gigante. Il signor Wallace, nel corso di un’ispezione in loco, ha recentemente preteso garanzie circa la sicurezza e l’incolumità del Cucurbitaceo, chiedendo senza mezzi termini la presenza di non meno di 500 (cinquecento) uomini delle forze dell’ordine a vegliare sul verde pupillo. Dal canto suo il sig. Gromit è stato abbastanza lapidario e si è limitato a inarcare un paio di volte il sopracciglio alla vista delle lussuriose fontane dinanzi a Palazzo Mancini (il municipio di Cattolica, piazza d’onore riservata allo stand dei due illustri scienziati). Il sig. Wallace ha infatti spiegato, cogliendo la perplessità del suo collega e traducendola in parole, come questo particolare tipo di vegetale tema il cloro presente nell’acqua delle fontane e come questo possa venire a contatto con la superficie della Zucchina mediante nebulizzazione degli spruzzi e vento sfavorevole per poi intaccarne irrimediabilmente il manto e il bouquet. Si è quindi concordato per la costruzione di un gigantesco paraspruzzi in kevlar, da erigersi 24 ore prima dell’esposizione del Gran Vegetale, tutto intorno allo stand. Si è altresì ratificato di installare nelle immediate vicinanze uno stand di formaggi tipici italiani al fine di permettere al sig. Wallace di ristorarsi durante il duro lavoro fieristico.
In questo momento, partiti i due luminari, si deve purtroppo registrare l’aspra protesta degli standisti di orchidee e fiori esotici, fermamente contrari all’idea di avere una Santa Barbara stracolma di Gorgonzola atta a inquinare i delicati effluvi delle loro ardite composizioni floreali.
Una notizia dell’ultima ora accredita l’ipotesi che si stia lavorando a una particolare versione di Gorgonzola che recepisca le spore dei fiori e le restituisca sotto forma di un più accettabile aroma di squacquerone, in definitiva giudicato meno invasivo rispetto alla pungente fragranza del cugino lombardo.
Si tratta infine serratamente sul Pecorino.
Fragola
Pochi sanno che a Cattolica vive un misantropo barricato nel suo buen retiro e nascosto al mondo.
Questo Orco Mangiabambini è il mio amico Fragola. Una persona che non ha relazioni con la realtà. Per dirla tutta credo di essere l’unica persona che interagisce con lui. Temo che la sua esistenza sia ignorata persino dalla macchina burocratica che si nutre dei dati anagrafici di tutti noi e li espelle sotto forma di dati sensibili, plasmando uomini e codici.
Fragola non esiste. Fragola disegna e ascolta. Ha una sua semantica privata. Riempie intere risme di A4 con segni scarabocchiati alla rinfusa, e parla molto raramente.
Disegna. Ascolta. E registra. Possiede undici alti scaffali ricolmi di hard disk in cui vi sono registrate miliardi di parole, miliardi di comunicazioni, miliardi di conversazioni.
Fragola ha accesso a diversi satelliti di telecomunicazione. Ne ha pazientemente crackato le protezioni così come un minuscolo ago si insinua in una pallina di cera.
Fragola è un enorme orecchio invisibile. Ascolta. Registra. E disegna.
Migliaia di fogli solcati da ghirigori infantili, oscuri. Un messaggio che nessuno arriverà mai a decifrare.
Fragola ha deciso di riunire tutte le parole del mondo. Tutto il linguaggio orale. Vuole creare un Golem di Parole, l’Essere Dialogico perfetto, il Supremo Discorso. Cosa ne voglia fare di questa creatura non so.
So solo che quando sarà pronto uscirà dalla tana e parlerà.
E sarà ascoltato.
Zio Lupo
L’Hotel accoglieva i suoi ospiti con un imponente mobile ligneo di inizio secolo che dominava gran parte della Hall. Era la libreria per gli ospiti. Quella biblioteca divenne gradualmente un punto di riferimento per coloro che non disdegnavano il piacere sottile di una lettura sotto l’ombrellone. Una lettura che magari per una volta non offrisse i glutei impomatati di una procace velina alle prese con i paparazzi o le titaniche sofferenze del calciatore in convalescenza sorpreso in alto mare con uno stormo di scollate infermierine.
I titoli della bostoniana spaziavano dal giallo mondadori hard-boiled al feuilleton d’intrattenimento, dal volume divulgativo alle vecchie serie enciclopediche. E proprio in quest’ultima sezione vi erano alloggiati i Quindici, insuperato compagno d’infanzia di intere generazioni di quarantenni.
Il volume delle favole, quello dalla costa viola, era senza dubbio il più richiesto. Mamme disperate vi si rivolgevano come ad un elisir miracoloso per espletare il rituale della nanna che in vacanza pareva far cilecca. Ma era un libro a doppio taglio. Se pescavi la favola sbagliata rischiavi l’effetto opposto, con il piccolo che ti guardava con occhi sbarrati e si rifiutava categoricamente di dormire. Alcune memorabili favole come “Zio Lupo” a firma nientemeno che di Italo Calvino terminavano con una frustata: “ahm che ti mangio! – E se la mangiò. E così Zio Lupo mangia sempre le bambine golose.” Fine. Buonanotte amore mio. Buonanotte? Quale buonanotte poteva essere? Zio Lupo era di certo lì da qualche parte, acquattato nell’ombra, fuso nell’ombra più nera della stanza. Quale cavolo di buonanotte poteva essere?
La Storia di Zio Lupo era in effetti tutt’altro che edificante: una bimba che non riesce, per vergogna, a mangiarsi le frittelle della festa scolastica di Carnevale e sua madre che promette di cucinargliele per consolarla, previo prestito di una padella da un terribile e ferino parente: lo Zio Lupo. La bimba, tremante e (giustamente) timorosa, si reca così dal selvatico parente e chiede in prestito la padella. Lo Zio Lupo acconsente al prestito a patto di ottenere una contropartita adeguata di frittelle. La mamma, ricevuta l’agognata padella, sforna carriolate di Chiacchiere lasciandone una padellata per il famelico avo. La bimba (che per inciso non ha nome, mai ne hanno le vittime sacrificali) riporta la padella colma di prelibatezze, accompagnate da un filone di pane e da un fiasco di vino. Strada facendo la voracità della bimba ha la meglio sulla paura e le frittelle, il pane e poi anche il vino (con un ventilato problema di alcolismo) vengono spazzolate dall’insaziabile puella. Per sostituire il maltolto la bimba crea delle frittelle con deiezioni di Somaro, riempie il fiasco di acqua sporca presa da una pozzanghera e modella un filone di pane con della calcina da muratore. Con tali succulente libagioni si presenta a casa dello Zio che non prende affatto bene la cucina propostagli sputando ogni pietanza con disgusto roboante. Infine, intuendo il subdolo inganno, ammonisce con occhi di fuoco la fanciulla: “Stanotte vengo e ti mangio!”. La bimba torna a casa sconvolta e racconta tutto alla madre che si perita di sprangare porte e finestre della casa scordandosi improvvidamente del camino. E così la Belva giunge per ottenere la sua terribile Vendetta, con un rituale di morte che lo vede camminare sul tetto, calarsi per il camino, entrare nella stanza, sollevare le coperte e sbranare l’ingorda fanciulla.
Zio Lupo incarnò nella mia infanzia tutto ciò che di più pauroso poteva materializzarsi dal buio intorno al sonno:
“Quando fu notte e la bambina era già a letto, si sentì la voce dello Zio Lupo da fuori: – Adesso ti mangio! Sono vicino a casa! – Poi si sentì il passo vicino le tegole: – Adesso ti mangio! Sono sul tetto!…” etc. etc. con vari elementi architettonici valicati prima del fatale epilogo pappatorio. Una sorta di Liturgia dello Sbranamento, una cerimonia ancestrale scandita da lisergici aggiornamenti di status (sono sul tetto, sono nel camino, sono nella stanza, etc etc.), quasi un resoconto geolocalizzato di un assassino che va a purificare la sua vittima designata in diretta streaming.
Buon vecchio Zio Lupo, coprofago per inganno, antropofago per nemesi, un ultima preghiera da parte mia: stai lontano dal mio tetto… (se puoi)
Silvestro Lega e i Macchiaioli a Forlì
Dal 14 Gennaio fino al 24 giugno 2007 presso i Musei San Domenico di Forlì la Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì in collaborazione con il comune di Forlì organizza la mostra: “Silvestro Lega – I macchiaioli ed il Quattrocento”.
La Mostra è veramente uno di quegli eventi da non lasciarsi sfuggire. L’occasione è quella di approfondire la conoscenza di quel vasto movimento artistico che prese il nome di”Macchiaoli” e segnatamente di Silvestro Lega, talentuoso pittore romagnolo che fu fondamentale esponente di quel movimento. Riporto un brano dall’interessante biografia presente nel sito ufficiale della mostra linkato nel titolo del post:
“Silvestro Lega è stato, con Giovanni Fattori e Telemaco Signorini, l’indiscutibile protagonista di quella fondamentale esperienza della pittura italiana dell’Ottocento che ha riunito, sotto l’etichetta prima dispregiativa e poi divenuta molto popolare di Macchiaioli, artisti di varia provenienza che trovarono a Firenze e nella campagna toscana l’ambiente più adatto per sperimentare un modo rivoluzionario di rappresentare la realtà.
Rispetto a Fattori e a Signorini, entrambi toscani, ma anche agli altri Macchiaioli, il romagnolo Lega si è distinto per un temperamento particolare e soprattutto per un’intransigente fedeltà agli ideali artistici e politici che hanno contraddistinto il gruppo sin dalle origini.
Durante tutto l’arco della sua vita non ha mai ceduto ad alcun compromesso, anche a prezzo di
drammatiche difficoltà economiche e di una progressiva emarginazione. Queste scelte difficili e dolorose, che dimostrano una forte tensione morale, si devono ricollegare anche agli anni della sua formazione e a una terra d’origine, la Romagna, che nella lunga stagione del Risorgimento sì è contraddistinta per l’impegno patriottico e il coinvolgimento nell’azione politica promossa da Mazzini.”
[brano tratto dal sito ufficiale della mostra: www.mostrasilvestrolega.it]
La Meridiana del Lungomare.
La discoteca Casanova.
La discoteca Akimbo.
La mia bici.
Il Campo Majani.
Il Cinema Cielo.
Il Bar Sirenella.
Il Circolo Arci La Randa.
Le Colonie La Milanina.
I Cannelli.
Le Cabine di legno.
Le Scuole Elementari Celestina Re.
Le Scuole Medie Marconi.
I semafori.
I Parcheggi liberi.
Le cabine telefoniche.
La salagiochi Skyking.
Il Dancing Esedra.
La Spuma.
L’omino dei Bomboloni a spiaggia.
Il Delfinario.
La 2 cavalli di Ciancio.
Le cartoline a libretto.
La Pizzeria Berninetta.
Telecattolica.
La Pavimentazione di Viale Dante.
Il MetaBlog
Il MetaBlog è un Blog che parla di se stesso. Si interroga sulla sua potenza. Pensavo questo oggi, e pensavo anche a questo gigantesco fenomeno dei blog, sì insomma, come tutto questo fiorire di taccuini binari sia in realtà una risposta univoca: un tentativo di *sistemare* la molteplicità del Reale attraverso un linguaggio collettivo. Un linguaggio che trascende il Reale, che trascende lo stesso Pensiero che l’ha generato, che aspiri alla Totalità dei Fenomeni. Non una Biblioteca, non un’Enciclopedia, non un’enorme Banca Dati, ma la Realtà stessa. Allora salto subito a Husserl e alla sua Fenomenologia e mi dico: alla fine arrivo sempre morbosamente lì… Ma no, c’è dell’altro, qualcosa di nuovo stavolta. Dapprima mi sono illuso di covare qualcosa di realmente originale, e mi sono tenuto stretto quel pensiero, fin dopo pranzo. Poi mi sono reso conto che stavo rielaborando qualcosa di già masticato, e no, non erano i cannelloni di Nonna Olga. Non proprio, si trattava di quando ancora mi sentivo un pioniere dell’autoreferenzialità dei linguaggi e leggevo Wittgenstein e Valéry con l’entusiasmo di un nerd.
Paul Valéry, appunto. Scalo a fatica la biblioteca di casa e recupero i quattro tomi Adelphi dei Quaderni, maravigliosa fucina di ingegno e unico luogo adibito a celare la mia inferiorità intellettuale.
Ed ecco che a pagina 19 del vol. 2 pesco la matta:
“L’uomo spera di superare il proprio pensiero mediante il proprio linguaggio. Vuole e crede nel dire più di quanto non convenga. Quando dice il Mondo egli non possiede, dopo tutto, che un bizzarro brandello di visione, e l’arrotonda sulla sua bocca. Prende di mira il tutto, come il minuscolo occhio la montagna.”
Bellissimo e ingovernabile, una disfatta lucente. Una sintesi mirabile di ciò che invano ci affanniamo a costruire tramite il Linguaggio, dell’abisso oscuro in cui brancoliamo, senza la minima speranza di guadagnare la superficie respirabile, neppure intrecciando le dita di miliardi di blog che rimbalzano come neuroni di un unico fugace pensiero, già irrimediabilmente perso.
[brano tratto da Paul Valéry, Quaderni volume secondo, ed. Adelphi]
Il relitto
Ci si ritrovava domenica pomeriggio alla chiesa di Sant’Antonio in via Del Prete. Le bici si lasciavano spalmate sulla mura della vecchia chiesina a quei tempi appena soppiantata da un mostro futurista inconcepibile: la nuova chiesa di Sant’Antonio, edificata come uno sberleffo di fronte all’antico tempio, frutto evidente della malìa che lo spirito di Le Corbusier propalava ancora in quei vulcanici anni ’70, ruggito avanguardistico che squarciava il buongusto dei notabili cattolichini.
C’era chi arrivava con il baccano infernale di un due tempi ben rodato, ma era uno sporco trucco, si trattava solo di un pezzo di cartone fissato con una molletta alla forcella della bici, che sbatteva a mitraglia tra i raggi della ruota, ta-ta-ta-ta. C’era poi chi si perdeva in catenacci a prova di conflitto atomico, salvo poi rischiare di perdersi le prime battute di Ciccio e Franco o persino i primi cazzotti di Bud Spencer. C’era chi arrivava a piedi, e passava al Bar Milano per rifornirsi di pop corn, patatine e il ghiacciolo con stecco di liquerizia Liuk, per i più audaci che non temevano i sequestri dei Frati e le insidie meccaniche del dentista.
All’entrata Padre Antonio sorvegliava come un Nume Tutelare l’accesso alla sala, disciplinando la fila e l’eloquio. All’interno Padre Giuseppe armeggiava con il proiettore mentre padre Pietro raccoglieva le 100 lire del biglietto d’ingresso con il cestino della questua ancora caldo dalla liturgia domenicale. Era impossibile sfuggire al suo occhio contabile e al suo passo claudicante. Non per nulla era professore di matematica.
Nell’occupazione dei posti bisognava fare attenzione a chi si aveva alle spalle. Si cercava disperatamente di evitare i bulletti di quartiere che durante la proiezione riempivano di coppini e scapazzoni il malcapitato.
Infine ci si ritrovava fuori a commentare il film. Saltavano fuori interpretazioni improbabili in cui Terence Hill era in realtà un androide venusiano inviato per studiare i terrestri e perfettamente mimetizzato, oppure si snocciolava la litania delle smorfie di Franco e le relative evoluzioni facciali per imitarle al meglio.
E così la domenica passava e si tornava a casa con il cuore gonfio di fantasia e di storie impossibili.
In occasione dell’entrata in funzione della nuove torre libraria da 4000 volumi del Centro Culturale Polivalente, una dozzina di poltrone con la dicitura “non disturbare” saranno disseminate in questi giorni sul territorio di Cattolica dall’amministrazione comunale. A disposizione, accanto alla poltrona, una pila virtuale di libri: un invito alla lettura per i cittadini (o un tremendo monito?).
Mi siedo in una di queste poltrone, mi metto comodo e apro bene gli occhi.
Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa valigia di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.
Dalla mia poltrona “non disturbare” vedo la casa di Nonna, i due gemelli che aspettano in giardino, il dialogo crudele che trapela dalla finestra tra la Donna e la Vecchia Madre.
– Non c’è più niente da mangiare in casa nostra, niente pane, carne verdura, latte. Non posso più sfamarli.
– E allora ti sei ricordata di me. Per dieci anni non ti eri mai ricordata. Non sei venuta, non hai scritto” (…)
– Sono i vostri nipotini.
– I miei nipotini? Non li conosco nemmeno. Quanti sono?
– Due. Due bambini. Gemelli.
– E degli altri cosa ne hai fatto?
– Quali altri?
– Le cagne mollano lì quattro o cinque piccoli per volta. Se ne tengono due, gli altri li annegano.
L’altra voce ride molto forte. Nostra madre non dice niente e l’altra voce chiede:
– Hanno un padre almeno? Non sei sposata, che io sappia. Non sono stata invitata al tuo matrimonio.
– Sono sposata. Il Padre è al fronte. Non ho sue notizie da sei mesi.
– Allora puoi farci una croce sopra.
L’altra voce ride ancora, nostra madre piange.
Mi levo blandamente dalla poltrona “non disturbare”, alzo lo sguardo e mi accorgo che le cose hanno continuato a scorrere intorno a me, in un lento esercizio di meccanicismo.
Tutto quanto incontro al suo naturale destino, metallico e perfetto come un cielo invernale.
[brani tratti da Agota Kristof “Trilogia della città di K.” – Einaudi]