Ci si ritrovava domenica pomeriggio alla chiesa di Sant’Antonio in via Del Prete. Le bici si lasciavano spalmate sulla mura della vecchia chiesina a quei tempi appena soppiantata da un mostro futurista inconcepibile: la nuova chiesa di Sant’Antonio, edificata come uno sberleffo di fronte all’antico tempio, frutto evidente della malìa che lo spirito di Le Corbusier propalava ancora in quei vulcanici anni ’70, ruggito avanguardistico che squarciava il buongusto dei notabili cattolichini.
C’era chi arrivava con il baccano infernale di un due tempi ben rodato, ma era uno sporco trucco, si trattava solo di un pezzo di cartone fissato con una molletta alla forcella della bici, che sbatteva a mitraglia tra i raggi della ruota, ta-ta-ta-ta. C’era poi chi si perdeva in catenacci a prova di conflitto atomico, salvo poi rischiare di perdersi le prime battute di Ciccio e Franco o persino i primi cazzotti di Bud Spencer. C’era chi arrivava a piedi, e passava al Bar Milano per rifornirsi di pop corn, patatine e il ghiacciolo con stecco di liquerizia Liuk, per i più audaci che non temevano i sequestri dei Frati e le insidie meccaniche del dentista.
All’entrata Padre Antonio sorvegliava come un Nume Tutelare l’accesso alla sala, disciplinando la fila e l’eloquio. All’interno Padre Giuseppe armeggiava con il proiettore mentre padre Pietro raccoglieva le 100 lire del biglietto d’ingresso con il cestino della questua ancora caldo dalla liturgia domenicale. Era impossibile sfuggire al suo occhio contabile e al suo passo claudicante. Non per nulla era professore di matematica.
Nell’occupazione dei posti bisognava fare attenzione a chi si aveva alle spalle. Si cercava disperatamente di evitare i bulletti di quartiere che durante la proiezione riempivano di coppini e scapazzoni il malcapitato.
Infine ci si ritrovava fuori a commentare il film. Saltavano fuori interpretazioni improbabili in cui Terence Hill era in realtà un androide venusiano inviato per studiare i terrestri e perfettamente mimetizzato, oppure si snocciolava la litania delle smorfie di Franco e le relative evoluzioni facciali per imitarle al meglio.
E così la domenica passava e si tornava a casa con il cuore gonfio di fantasia e di storie impossibili.