Sono entrato
in questa Distanza
e ti ho raggiunta.
Nell'assenza
quasi innata,
ma presente,
in qualche modo.
Come ti ho trovata
mi chiederai.
Brilla ancora di te
un sorriso trafugato
alle crudeli Moire:
un cono sfilacciato
che flette lo spazio.
Non potevo sbagliarmi.
Questa Distanza
è confortevole,
tra tutte quelle finora percorse
- a tentoni, a carponi,
in dolorosa prostrazione -
io qui mi fermerei.
Tra queste agavi
e questa sabbia,
e questo azzurro deserto
disporrei il bivacco,
un fuoco e qualche parola
decaduta in sussurro.
Con calma
organizzerei la ricerca
della tua vacuità.
Sì è vero,
mi rinfacciano
i tuoi muti contorni,
il mio trasandato
disprezzo per
lo Spirito, per il Cielo
gonfio di candore,
è stato un macigno
nel tuo cuore fremente,
nel tuo pensiero
inondato di sangue e fede.
Ma ti assicuro
sono cambiato.
Programmerò
il mio confino
in questa regione,
riuscirò perfino
a darti un profilo,
un'assenza prestabilita.
E poi potrò pensare
di elevarmi
fino al tuo Dio
per sfigurarlo con la mia
prosaica missione.
Le Distanze intanto
ruotano in perfetto asse
intorno a questo piano
che di cartesiano non ha più nulla.
Cerco di sviare i miei occhi da te
guardando quelle cieche orbite
mentre vorticano
mentre scorticano l'aria.
Ma non ho più fiato.
La tua impalpabilità
mi annerisce i denti.
Mancano le leggi,
o forse
manca un refolo di vita,
per uscirne fuori,
per dirimere il paradosso.
Le Distanze vacillano
collidono
stridendo
coincidono,
mi franano addosso,
illudono gli occhi
in morta Parata.
Rimane solo
- lontana - la tua remota risata,
la deriva dello spazio,
prima ancora della memoria,
lo strazio
ineluttabile
della tua storia
già fuggita,
già perduta.
Dante, nel primo canto del Paradiso, e non a caso precisamente in quel luogo, introduce il concetto di “Trasumanar”, ossia di spingersi oltre l’umano per ascendere all’Oggetto Divino. Un’operazione di aereo superamento dunque per trascendere la propria greve condizione umana e cogliere Dio. Si tratta di un neologismo, un termine coniato dal Sommo Poeta per aggirare i limiti del Linguaggio e tentare di descrivere l’abbattimento dei limiti umani per potersi rapportare al Superno. E il Poeta tale collasso semantico lo sottolinea con veemenza nella Commedia: “Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba” (Paradiso, I, vv. 70-73). Il Lessico non è più utile, ma occorre la Fede per uscire dal corto circuito logico.
Giuseppe Vanni, amico e poeta cattolichino, rielabora nella sua ultima raccolta poetica Transumanesimo (Fara Edizioni, 2021) il concetto dantesco in una funzione antropocentrica: il (disperato) tentativo di trascendere i limiti umani, non già per arrivare a conoscere Dio, ma per una volontà di potenza estremamente pragmatica e terrena. Trascendere la condizione umana per creare un nuovo essere capace di travalicare la propria condizione per giungere ad una nuova e potenziata essenza umana. Un concetto splendidamente descritto nel prologo (Genome Editing) in versi di fulminante presenza: “Non più nell’Amore/ origina il mistero/ dell’evoluzione./ Non figli di Dio,/ ma di una mutazione.”. Quasi a scagliarsi contro questo spasmodico anelito di superamento della condizione umana per plasmare il Prototipo Perfetto, Nietzsche avrebbe detto il Superuomo.
Un’esigenza quasi cronachistica quella di Vanni nel descrivere la parabola discendente dell’Uomo, evidenziata anche dalla scelta dei titoli delle sezioni della raccolta: Crepuscolo, Declino, Calpestare, e Mondo Nuovo. Una tassonomia della Nuova Umanità sciorinata in versi essenziali e asciutti, quasi illuminanti haiku sullo sgretolamento di un Mondo, di una Realtà che va disintegrandosi intorno, dove ogni relazione umana è progressivamente disciolta nella proiezione febbrile verso un Futuro inesistente, oscuro, senza prospettive.
In uno dei componimenti più belli dell’intera raccolta (Intreccio) troviamo il senso di questo straniamento dinanzi a una Realtà aliena e inconoscibile.
L'intreccio
che ti ha portato qui
ho smesso di dipanarlo
ormai da giorni.
Mi accontento di averti
se ci sei, non mi chiedo
se parti dove vai.
Non cerco parole
per dirti chi siamo:
ho smesso di rispondere
a chi chiede ragione
di un attimo.
Dinanzi ad una Realtà densa di barocchismi e di biforcazioni perenni l’autore cerca di stringere a sè i propri affetti. Una realtà che ormai è impossibile da conchiudere in una definizione univoca ma che si presenta come una tentacolare entità che ghermisce e stritola l’uomo, che fallisce nel compito di ritrovarsi dentro di Essa, ma si perde nel suo continuo divenire.
Transumanesimo è una raccolta del Distacco. Un lungo amaro allontanamento da ciò che il Poeta non può più cogliere nè comprendere. Ogni modello, ogni pattern fallisce nell’ascrivere una sentenza tassonomica sul Mondo Esteriore. L’unica certezza è questo progressivo e inesorabile declino dell’Uomo attraverso un inane quanto inutile tentativo di superarsi, di elevarsi al di sopra di questo rutilante fluire. La difesa poetica sta nell’astrazione della Parola, nel contendere alla Verità ultima un grumo poetico di autentica umanità, come in un altro luogo memorabile della raccolta, il componimento Ombre, i cui versi finali recitano come un bruciante epitaffio: “E’ un baleno la verità/ che ti s’approssima,/ l’istante che t’afferra/ a ipotecarti la vita./ Ma tutto ancora/ alla pupilla/ rapido s’imbruna,/ l’incantesimo svanisce./ Per un attimo la verità./ la dannazione per l’eternità.”
L’uomo ormai è solo dinanzi allo sfacelo della sua Storia: un rapido istante di consapevolezza lo inchioda per sempre al suo destino.
Stretto e impervio collima con l’anima labirintico estatico scoperto di passi,
io ti percorro aperto allo sgomento delle tue anse, delle tue buche, delle tue nascoste mani protese nelle strettoie precise sul viso a lambire le carni e il profilo di frustrazione.
Io ti rivedo viottolo nel sentiero delle mie idee quando nascosi la mano che aveva ucciso la lucertola e tu mi invocavi con le tue crepitanti distanze e io con la mia colpa ti percorrevo in fiamme.
Vicolo cieco dinanzi al cielo affossato di nero che trascolora in un velo di carta cenere e mancate parole.
Camminerò senza muovermi e tu saprai condurmi al rinnovato baratro del brancicare
del biascicare l’umano dolore che mi ha condotto a Te.
la Malattia che tutti temiamo ha eroso le anime di malati non malati già in piedi ed ora mortiferenti con il loro cupo fardello di paure timori di ingerire un’aria brulicante di vettori di virus incubati mentre uomini stanno soli alle finestre di strade vuote ascoltando in strepitante silenzio i silenzi di altri uomini muti azzannati da anecoici pensieri di morte di vita frantumata in uno spongiforme cervello corroso da dedali di vie inesplose.
Il Virus lui sì che parla attraverso il vento, i fumi, i falsi profili dei cadaveri.
Uniti in strada da un leggero sciabordio di dissoluzione stanno le potenziali vittime, gli ospiti: coloro che chiamavano umanità.
Tu sai.
Le mie parole
vanno come i miei anni,
dileguando.
Fors’anche
sai l’apice,
in cui sempre t’affanni.
“Bada”,
si dice,
puoi essere tu,
in mia assenza,
epicentro in cenere
d’ogni dissolvenza.
In questa notte d’aprile
gonfia di piogge e ricordi
non so dormire,
la morte mi è accanto
come sogno ostile
come rapida ladra d’ingegni
che seppe sfilarci Pavese
nel culmine acido
di occhi tanatoici
volati via.
Ed io con i miei teneri dolori
penso alla vita
che si duplica nel sonno,
avverto oltre l’oscuro
i febbrili affanni
d’un sogno bambino
che crepita nel ventre
amniotica tempesta
che si dissolve calma
nel sovrastante sogno
dell’incosciente madre.
Sogno nel sogno
neve su neve
ombra dentro al buio.
E finalmente il manoscritto ritrovato in Cantina (e non a Saragozza) vide la luce binaria di Amazon e si aprì al mondo sotto forma di eBuco.
Una raccolta giovincella di poesie, epodi e liste della spesa composte dal 1988 al 1992 che avevo malignamente sversato su fogli di carta velina tramite un Olivetti Lettera 22 appartenuta precedentemente a mia zia Lucia e che feci mia, nel senso hegeliano del termine. Mi furono accanto in quel travagliato e rorido periodo di composizione Bruno Munari e lo Scrondo per accompagnarmi in quella desolata landa che taluni chiamano The Waste Land e talaltri Porta a Porta.
Se disgraziatamente voleste avventurarvi in un tale minareto di sogni infranti potrete accedervi tramite l’Acheronte Digitale che prende il nome di Amazon punto it. Lo potrete raccattare per 99 centesimi che – sappiatelo – impiegherò per acquistare nuovi rimedi tricologici contro la calvizie neuronale che mi sta avvizzendo tutte le idee più fighe. Oppure ci farei un vaso di terracotta da incastrare sullo zenit per raccogliere furori di stelle e passiflore celesti. O anche un brullo cadavere di acciaio inossidabile per confortare le signore sulla via di Damasco verso licenziosi postriboli per sole donne. O almeno una cuffia per la piscina. Amaranto.
Da un po’ di anni si registra l’inesorabile e sotterranea infiltrazione di una una silenziosa milizia in capillare espansione. E’ l’Invencible Armada delle badanti, un brodo primordiale di etnie: ucraine, russe, bielorusse, georgiane, moldave, lettoni, lituane, estoni, azere, armene, kazake, turkmene. Donne nerborute che cullano negli occhi gli spazi siderali delle steppe caucasiche e si cibano dell’artrite dei nostri nonnini.
Si ritrovano in punti precisi della città, abitualmente a pomeriggio inoltrato nei giardinetti di fronte a Palazzo Mancini o sulle panchine del Parco della Pace. Sono una corporazione in continua espansione che comunica cavalcando migliaia di dialetti slavi e pianifica una sottomissione non violenta dell’Occidente per mezzo di una strategia sublime: la sistematica conquista di ogni uomo sopra i 40 anni dotato di codice fiscale e passaporto italiano.
Le maliarde hanno potenti armi conquistatrici: 1) una forza fisica ancestrale con cui piegano facilmente gli omuncoli autoctoni pieni di nevrosi e rimedi olistici, 2) sguardi di acciaio da cui non trapela intendimento nè indecisione, 3) una fittissima rete di relazioni che mettono a frutto con machiavellica sagacia.
Hanno qualcosa di indefinibile e potente nel portamento, un’aura oscura che trascolora in un lirismo solitario e dilagante divenendo impenetrabile corazza contro ogni genere di avversità. Poderose e incrollabili si stagliano contro il vento, e guardandole si ha quasi l’impressione di assistere al manifestarsi di una forza sovrumana. Contrappongono un nerbo, una fierezza che parla di atavica sofferenza, di fatica, di lavoro, di sacrifici, di samovar bollenti, di legna resinosa che scoppietta nel fuoco, di esilio dal secolo, o anche dei versi asciutti di Anna Achmatova.
Come in “Ultimo Brindisi”, una poesiola pubblicata nel 1934. Parole che si attagliano alla pelle di queste donne venute da lontano penetrandone il tranquillo mistero. La durezza di questi versi è la durezza di questa gente:
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.
Accostandosi alla voce multitonale di un poeta occorre trovare un appiglio metodologico che valga a districarsi tra le sterminate sfumature timbriche che investono il lettore. Luciano Anceschi, in un suo luogo particolarmente illuminante, afferma: “l precetti, le norme, gli ideali, e, in genere, le istituzioni che i poeti propongono […] risuonano liberamente nel corpo sempre in attesa di sollecitazioni della poesia, si muovono nella comunità dei poeti tra accettazioni, rifiuti, sempre con variazioni liberissime in un movimento che non tollera soste”‘. Con quest’indicazione programmatica si chiude la pars costruens de “Gli specchi della poesia” e, più in generale, una lunga stagione di ricerca speculativa inaugurata nel I936 con “Autonomia ed eteronomia dell’arte“. Tale consolidato impegno teoretico, quale risulta dal brano citato, ci fornisce gli elementi determinanti per intraprendere un viaggio sicuro, indirizzandone opportunamente la rotta. E, a volersene immediatamente avvalere, se ne ottengono le prime insostituibili rilevazioni procedurali.
Innanzitutto sono poste in luce le sovrastrutture poetiche con le quali il poeta sancisce un proprio statuto letterario, una regola privata che indaga il senso stesso dell’operazione in corso lasciando al critico una sorta di modus operandi ove sia possibile individuare un filo conduttore, un motivo ritornante. Tali sovrastrutture si ripartiscono, secondo la lezione anceschiana, in precetti norme e ideali che insieme vengono a costituire il percorso formativo del poeta e nel contempo il suo esplorare il proprio lavoro nell’attimo stesso in cui esso si compie. Questo magma di intenzioni e propositi ristagna e fermenta relandosi con altri sistemi esterni, venendo ad erigere uno sterminato edificio di connessioni che si concreta, vive e apre nuovi snodi strutturali nell’esercizio ultimo dello scrivere poesia, andando poi a realizzare un’identità poetica nuova ed irriproducibile.
Addentrarsi in questo complesso ecosistema significa dunque dipanare l’intreccio delle relazioni, seguire con scrupolo fenomenologico ogni ramificazione e verificare ogni segmento connettivo interno ed esterno: nella consapevolezza di analizzare una prospettiva in perpetuo divenire, mai consolidata. Con queste prime scarne indicazioni di base è già possibile avvicinare un testo poetico e sondarne rimandi e punti di fuga nell’ottica di una lettura fenomenologica, tesa quindi a inseguirne il crepitio concettuale nel corso del suo itinerario, in un dedalo ove la molteplicità assume valenza di connotazione morfologica e carattere di qualificazione ermeneutica. E l’autore stesso, Demiurgo di questo piccolo universo, viene a contenerlo e a significarsi nei suoi infiniti riflessi prismatici, quasi creatura del proprio molteplice creato, cellula intessuta d’eventi che rincorrono il proprio farsi. A tale proposito Italo Calvino avverte gaddianamente il suo uditorio nelle ‘Lezioni americane‘: “Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. E più fermamente Paul Valery ribadisce: “lo non faccio un ‘Sistema’ -il mio sistema- sono io”.
ln questa direzione è pertanto necessario muovere i primi passi. Ove cioè sia possibile cogliere nel poeta la consapevolezza del proprio fare nel momento in cui questo entra in collisione dialettica con i sottoinsiemi di un sistema multivoco, dialogico, poliprospettico, quale insomma lo indicava Michail Bachtin individuandone i connotati essenziali nella pluridiscorsività stilistica del romanzo. E proprio questa sorvegliata coscienza progettuale sintonizza il poeta sulla medesima lunghezza d’onda del critico. Egli, in quest’ottica, si pone dinanzi al suo lavoro con atteggiamento disincantato, andando risolutamente ad individuare e scandagliare le voci della propria anima (Machado, in un verso non a caso caro a Caproni, intese questa introspezione come un attento sguardo alle ‘secretas galerias del alma‘). ln tal merito si pronuncia puntualmente Giorgio Caproni: “Penso che un critico abscondítus sia sempre presente nel poeta. In questo senso il poeta è sempre uno e bino. E’ sempre vigile in lui il critico di se stesso (un critico inconscio, forse) anche e proprio quando egli sembra più abbandonato al raptus”.
Questa scoperta di un universo bipolare, dove invenzione e lezione si cingono indissolubilmente, è intimamente viva in un poeta straordinariamente introspettivo e problematico qual è Giorgio Caproni. ln lui la scoperta del proprio fare diviene rifrazione dell’impalcatura poetica: se è possibile ulteriore divaricazione di capisaldi tematici di per se già ampiamente fecondi di rimandi e valenze. Il suo sistema assume così le coordinate di un immenso crocicchio dove le direzioni possibili differiscono e ritornano a se stesse in una reversibilità pressoché perpetua. E un tale sistema arriva inevitabilmente a configurarsi come contenitore dei vari io (mézigues li ribattezza Caproni prendendo a prestito il termine da Céline) che ne hanno calcato gli innumerevoli sentieri: ne scaturisce un pulsante e quantomai instabile profilo interiore. Ed è il poeta stesso a tracciare tale fisionomia e ad inseguirla circolarmente con i propri versi, a farsi personalmente ‘altro da sé’: “si arriva così al paradosso che quantopiù il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da se ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi: un io che dalla singolarità passa immediatamente alla pluralità”.
La riflessione sul proprio fare diviene dunque in Caproni ontologia portante di tutta la sua opera, ove per ontologia s’intende un’indagine sistematica intorno all’essere pensante che crea e ritrova la propria identità attraverso le tappe di questa ascesi creativa. Compito del poeta è dunque farsi largo in una pluralità di mézigues che è propria di chi creando percorre e persegue una personale euresi poetico-speculativa. ln ogni suo lavoro Caproni si troverà a rincorrere un nuovo se stesso, un volto prefissato, quasi che ogni sua fatica letteraria risulti un gradino verso un identità sfocata e inconoscibile. sempre entro gli argini di una mai assopita razionalità indagatrice. Caproni, specie nell’ultima fase della sua parabola poetica, costruisce un sistema che individua e persegue alcuni precisi propositi. Puntando il suo sguardo verso se stesso ritrova le schegge dell’intera umanità franta e dispersa nei corridoi dell’anima, rinviene la tremolante presenza-assenza di un Dio sempre sul punto di essere raggiunto, rintraccia le coordinate topografiche dell’indicibile, del ‘non giurisdizionale’. Tutto ciò avviene grazie a quell’istinto progettuale che fa di Caproni un poeta sempre alla ricerca di un obiettivo da cogliere, quasi mai abbandonato al puro godimento estetico, un teoreta che innanzitutto affila le armi immediatamente fruibili tra il suo vasto arsenale: quelle dello stile e del metro.
Si scorrano alcune dichiarazioni di Caproni che risultano significative di tale coscienza progettuale e insieme di un tentativo di avvicinarsi ad una vagheggiata chimera stilistica: “Ho sempre creduto (…) che la poesia in genere, come la musica o qualsiasi altra arte, sia sempre intraducibile in termini logici per la plurivalenza che in essa assume la parola (anche secondo la posizione che essa occupa nel verso) oltre l’usuale codice della normale comunicazione”. O altrove: “ll mio ideale sarebbe scrivere poesie di una parola sola. ll rumore delle parole, della loro sovrabbondanza. mi ha stancato presto.” O ancora: “Mentre nel linguaggio pratico il segnale acustico o grafico della parola resta stretto alla lettera e alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma anche si carica di una serie pressoché infinita di significati ‘armonici’ (e dico ‘armonici’ usando il termine com’è usato nella fisica e nella musica) che ne forma la sua peculiare forza espressiva”.
Nostra premura sarà quindi verificare la rotta di tale arduo percorso poetico unitamente ai mezzi con i quali viene portata a termine. Ciò può attuarsi in relazione ad un approccio fenomenologico quale Anceschi ha teorizzato, teso cioè a captarne, per quanto possibile, la natura plurivalente dei nuclei tematici e stilistici, e i richiami intertestuali che da essi si ramificano in ogni direzione.