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Il Manoscritto

Il Parco

“Dalla panchina il cielo è una civiltà evoluta e implacabile.
Con il capo reclinato sullo schienale di pietra guardo su. Indugio su due immensi lastroni, di cobalto e turchese. Le due superfici aeree mischiano gli azzurri superiori e li combinano pigramente, in un fumigare di tonalità. Dovranno scontrarsi, in definitiva scambiandosi rabbia e disperazione, ma la civiltà lassù è un impulso al silenzio, senza sprecare inutili energie.
Il Parco è immerso in un verde non ancora rimarginato, di contro la Città resta a bagnomaria nel tiepido orizzonte, detersa nel bozzolo esterno, una cinghia nerissima che trema e schiuma e crocchia in lontananza. Il suo fiato giunge in effetti come mozzato, in punta di piedi. L’eterno scivolare delle risa, l’invenzione del volo, la letteratura delle fronde, il bilico acceso dei mille viottoli tatuati sulla stele erbosa, la voce già scritta del proprio pensiero: tutto questo arriva e diviene ed è *il Parco*.
Annuso l’aria. In cerca di angoli inesplorati mentre verdi finestre mi travestono di arboreità.
Sono in un manicomio e in fin dei conti ne onoro l’ospitalità con questi bislacchi travestimenti.
Tutto si muove secondo canoni distorti. La pazzia la tocchi. Il suo filamento carnoso appare, quando appare, concesso ai vari livelli dell’aria.
Il Parco tira i fili dei miei cinque sensi, e non possiedo che una vaga percezione del moto incessante che sconvolge la superficie, come un vento raccolto nel dormiveglia, fastidioso e recondito.
Le Cose che vedo mi entrano negli occhi come esotici interrogativi. Ne vedo tante di Cose: strane e meravigliose, a volte orribili, sconvolgenti. Nutro per esse uno stato di attesa, di sorpresa costruita, come se aspettassi la Cosa delle Cose, l’ultimo avamposto prima di una terra desolata e in tutto vuota a se stessa, il deserto di un immaginario finalmente depredato d’ogni tesoro, rantolante e incarognito, destinato a spegnersi come raggrinzita palpebra di un macilento sole. Ma so bene di illudermi: non vi è pietra miliare né confine che possa racchiudere la mutevole pozzanghera di queste regioni e non esiste alcuna luce d’esterno.
Le Cose passano con una velocità variabile, descrivendo e determinando il moto del Parco che da esse sugge energia e giustificazione. Una scialba sostanza che procede attraverso un continuo accavallamento, un disarmonico inquieto modularsi che rende vieppiù disorientato il visitatore. Non vi è possibilità di stipulare un patto di stabilità, l’esplorazione rappresenta un’acuminata unghia che dilania il tessuto mobile di questo mondo, salvo poi restarne carnalmente invischiata, impigliata nel raggrumarsi ciclico e micidiale dei mille assestamenti.
Già, gli assestamenti… Impartiti da un chiosatore pedante e ineludibile, smarriscono l’orientamento e lo conducono a un vizioso piroettare intorno a forme ora quadrate, ora circolari, ora sensualmente complicate nell’atto stesso del loro cangiar di forma.
Ecco. Ora per esempio ogni Cosa risulta debole e viziata, il ricordo di qualcosa che è stato, una metafora corrotta e scarna che debilita l’esperienza e la rende febbricitante, anecoica, folle.
A volte però riaffiora il gemito viola di una certezza, d’un punto fermo.
In quei momenti allungo una mano e tocco il tuo viso, il tuo umido viso che lento mi veglia, ventricolo di umana pietà. E quel.. [pagina strappata ndr]”

[In apertura: Paul Cézanne – Dans le parc de Château Noir 1898]

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Il Manoscritto

Empatia

Proseguo con la pubblicazione del Manoscritto affidatomi da un cliente del mio hotel, di cui per ovvii motivi, continuo ad omettere il nome. A tutti coloro che mi hanno scritto pregandomi di rivelare quel nome rispondo che le sue parole, più del suo nome, ne sapranno onorare la memoria, faranno giustizia delle sue azioni, apriranno un varco che nessun attributo onomastico può sperare di aprire.

“Empatia.
Fruscia nella stanza, da un corpo all’altro, da una storia all’altra, si lascia toccare, in trillante consistenza. E’ il tributo a un qualche spodestato Dio o la sua ultima parola, un fischio lungo, inattuato e irriferibile, drenato dalle coscienze, già pronto a ghermirle.
Al suo passaggio il nostro vissuto non è che una matassa inestricabile di altri noi stessi e di altri vissuti, in un loop eterno di clonazioni. Esseri orripilanti, ognuno modellato su strati alieni e inconciliabili, maldestramente incollati tra loro e pronti a tracimare in un vago brusio, un brulicante nulla in cui arrangiare le memorie, le vite altrui.
Empatia. L’estasi repressa di coloro che ascoltano la loro esistenza demandata, sfranta in milioni di universi argillosi. Vorrei essere unico e solo in me stesso, ma il verdetto perde sintassi e significato, vola via in un tappeto di coriandoli. Eccomi a casa, disseminato nel vuoto.
Sono io. Sono tutti voi. Sono le vostre parole, i vostri pensieri, le vostre regole, le geometrie assopite che vi bruciano i sensi.

I Ricettivi sono in tutto nove, accoccolati uno di fianco all’altro, su divano, poltrone e tappeto. Mi sono stati inflitti dopo *l’efferato omicidio*, così come ricorre in gran parte degli scartafacci processuali. Infermità mentale – si è detto. Riablitazione psichiatrica – si è detto. Terapia di gruppo – si è detto.
Tra questi fantocci è presente una donna.
Sono io quella donna. Sono ognuna di quelle sagome incatramate.
Cosa volete sentirvi dire?
Non c’è Ricezione nella Morte.
Vaghezza di un deserto dei sensi: ombra imbiancata degli occhi, nebbia di rumori, barcollare di sapori, contatti dilapidati, odori paludosi di polvere e spazi vuoti.
Osservo i volti degli altri, sembrano intenti a carpire qualcosa che non c’è, auscultano la salma invisibile, la percuotono con le ipotesi, disegnano il cadavere nell’aria, mi guardano con paura incipriata.
Non sanno, non si rendono conto.
Per noi che ascoltiamo, la Morte è un capogiro di vacua afasia.
Seppellire il delitto in un contenitore di carbonio opaco, licenziarlo e dipanarlo nei placidi smeraldi della detenzione, è di questo che si tratta, sono lì apposta. Prendere congedo dalla Morte, dalla sua cancellazione distillata nel tempo a venire: una fuga, un perdere di vista la Fine, persino la lineare premeditazione che si acquatta in essa.
Tutto questo è osceno.
La Morte è viva.
Anima nera del Nulla, definizione di Dio, fascicolo di Infiniti: abbiate cura di lei, guardatela, è giunta a voi madida di Retromondo, un cosmo personale che aveva creato e in cui amava rintanarsi. La conosco, non vi darà fastidio. Non si porta appresso nessuna Cosmogonia, nessuna Eresia da arginare. Depositatela nel suo Retromondo e lasciatecela a giocare, per favore.
Riguardo a te, Signora mia, ovunque tu sia, prego che possa giungerti il mio afono congedo.
Addio.”

[in apertura Jackson Pollock – Number 7, 1951]

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Il Manoscritto

Il climax di un ricevimento

Quattordici anni fa un uomo che ha soggiornato in hotel ha lasciato in custodia un manoscritto. Lo ha semplicemente abbandonato nelle mani di mio padre con la preghiera di custodirlo e consegnarlo alle stampe in caso lo ritenesse opportuno. “E’ meglio che lo tenga lei, io… per vari motivi… non potrò più soggiornare qui, nè godere del piacere della sua compagnia e della sua ospitalità. Mi piace sapere che ce l’abbia lei. Se vuole lo legga pure, è una specie di diario in prima persona, una cosa abbastanza intima. Eppure non mi disturba affatto l’idea che lo legga. Ora la saluto, ho il taxi che mi aspetta.”
Oggi, a distanza di tanto tempo, scorrendo un quotidiano ho rinvenuto in cronaca il suo nome, in uno di quegli articoli ricchi di particolari da grand guignol per ammorbare e avvincere in una grottesca spirale di sangue. Il suo nome associato all’abusata perifrasi “trovato morto in circostanze misteriose”. Sono rimasto inerte, con il giornale sperperato tra le dita, come ghiaccio secco.
Quindi la decisione. Stabilisco seduta stante e unilateralmente di pubblicare il suo diario rilasciando questa gaddiana matassa di bit nel lento inesorabile fiume della rete. Lo diluirò in più post che etichetterò con il tag “Il Manoscritto”, non posso/voglio essere più didascalico nè fornire dati sensibili, spero che capiate, è la deformazione professionale dell’albergatore che intende tutelare la privacy (l’ultima, la più solenne) del suo cliente, e non importa se questi abbia già schiuso lo sguardo sui deserti che solo la morte, con studiata pietà, fa correre via a perdifiato. Nel ricopiarlo rimarrò fedele ai (rari) refusi, alle incongruenze e ad ogni altro genere di errore. Insomma cercherò di mettere in piedi un’operazione filologicamente rigorosa, attenendomi il più possibile allo spirito in cui il diario è nato ed è stato scritto. Salvo poche eccezioni lo stile risulta quantomeno onirico e surreale, una specie di flusso di coscienza in prima persona, redatto da un uomo di evidente cultura e raffinatezza, un uomo, se posso aggiungere, dolorosamente instabile negli affetti e nel rapporto con il Reale. Le pagine sono interamente vergate a mano con una calligrafia cesellata, sottile e ordinata. Il primo paragrafo reca l’indicazione “Il climax di un ricevimento”.

“La punta del cacciavite è scintillante, perfetta, senza colpa. Nell’abisso della tasca è il sesto dito di una costellazione sprofondata.
Seguo il tortuoso viottolo trapuntato di melograni oltrepassando geodetiche azalee. Conduce inerpicandosi al casolare, ne distinguo già il profilo scivoloso. In alto, tra uno squarcio di nubi, stentano le triangolazioni degli equinozi e più su le prerogative astromantiche. Ma qui, sull’espansa terra, mi attendono una pinta di birra e due capezzoli smaltati, più oltre un vocio balanico di feste concentriche, e panettoni di pasta zincata in guisa di falsa gelatina, e torme di commensali sordi al cibo, rovinati tra cosce non ancora lascive. Mi fermo per un attimo e penso, anzi decido: non devo deludere questa folla festante. Riprendo il cammino beffato dall’incrocio d’ombre, di rami e disordini aerei. Cric croc, i passi guazzano tra cicatrici di vetro e profilattici a listelli, sperperati sulla veranda come bossoli esplosi a caso.
Dove sei, mia Signora? Giro tra i banchi di uomini e mi sento un essere di creta imbevuto di bassotuba e salatini, un nuotatore sciancato sulla coda di balsamiche correnti. Ma perché non mi scivoli incontro con quel tuo modo oleoso di precipitare discorsi evocando cadaveri di luna?
La musica non mi sporca, questo no, grazie a Dio. Eludo financo la luce per concentrarmi sui discorsi miagolati in un unico possente equivoco. Rimbalzano le parole come nani tarantolati, si azzuffano in volo creando frangenti sussurrati, polittici di caccia alla volpe-parola, già stinti e di nuovo campiti da una forza instancabile. Una cattedrale del gossip.
E naturalmente bevo perdendo falcate di buonsenso, e chiedo, anzi imploro il mio io catodico di stornare il vero dal falso alcolettico, perché il punto focale è che non riesco a sintonizzare il suo volto mentre mi aggiro tra queste cariatidi che faticano a trovare una posizione, e balzellano, hop hop, da un piede all’altro, glissando sulla loro inerzia. Facce su facce, visi nei visi. Estasi dinamiche nel mio Tempio Etilico mentre attingono al Mosto fluescente delle mie inferenze… Abitanti del mio paese, maschere plasmate dalle mie dita: ognuno di loro mi appartiene, da sempre.
Stringo il cacciavite e intuisco che potrei, facendo finta di nulla, andarmene, senza che nessuno mi abbia mai visto nè notato: fantasma tra i fantasmi. Ma no, invece. Sto prendendo forma e con essa un briciolo di coraggio. Piano piano. Mi staglio in rilievo. Ho un’ombra. Posso essere guardato.
L’alcol è così: come un titano in una trincea che a forza di assestarsi, ti modella un tantino più grande, ancora un po’ e un altro pò, finché eccoti metabolizzato sul modello di crescita di tutt’altra genia, una razza spesso scintillante, certo, ma completamente avulsa a tutto, impermeabile e conclusa, una zuppetta aliena buona magari per stupire le fanciulle al sesto mese di gravidanza, ma niente altro.
Ed eccola finalmente, mia Signora, come luce disegnata, come aria di neve… Eccola a me… Ora la raggiungo, qui davanti a tutti prenderò a starnazzare come un Gran Buffone fino a sgraffignarle l’alito stesso, fino a stupirle il respiro.
No, niente da fare, bisogna prima disperdere il capannello di mosconi che le gravita intorno, ma l’orbita che seguono andrebbe ridisegnata e scagionata per poterne dirimere il ciclo, il fatto è che non ho ASSOLUTAMENTE uno strumento adatto, o forse… potrei… potrei usare la punta del mio cacciavite.
Oh no.
Schizza scarlatta una viscida salsa, spremuta di fuoco, archetipo rosso, acceso rubino, e porpora, più scura, velata d’arancio, vermiglio zampillo, cremisisprizzante.
Il mio cacciavite scava testardo nel cerchio della sua carne fino a raggiungere e guadare il cuore. Ed eccola già caduta, sfiorita, il viso volato nello stupore anemico dell’ultima facezia sussurrata a chissà quale moscone. Lievemente stupita di andarsene, così, nella farsa di una festa di troll. Tutto si fa pietra.
Gli altri – le statue – la urlano morta.
Una lunga parentesi di agonia bianca.
Ancora urla, foderate, liquide, dissolte, spente.
E io…
Io non ci sono.
Non più.”