Proseguo con la pubblicazione del Manoscritto affidatomi da un cliente del mio hotel, di cui per ovvii motivi, continuo ad omettere il nome. A tutti coloro che mi hanno scritto pregandomi di rivelare quel nome rispondo che le sue parole, più del suo nome, ne sapranno onorare la memoria, faranno giustizia delle sue azioni, apriranno un varco che nessun attributo onomastico può sperare di aprire.
“Empatia.
Fruscia nella stanza, da un corpo all’altro, da una storia all’altra, si lascia toccare, in trillante consistenza. E’ il tributo a un qualche spodestato Dio o la sua ultima parola, un fischio lungo, inattuato e irriferibile, drenato dalle coscienze, già pronto a ghermirle.
Al suo passaggio il nostro vissuto non è che una matassa inestricabile di altri noi stessi e di altri vissuti, in un loop eterno di clonazioni. Esseri orripilanti, ognuno modellato su strati alieni e inconciliabili, maldestramente incollati tra loro e pronti a tracimare in un vago brusio, un brulicante nulla in cui arrangiare le memorie, le vite altrui.
Empatia. L’estasi repressa di coloro che ascoltano la loro esistenza demandata, sfranta in milioni di universi argillosi. Vorrei essere unico e solo in me stesso, ma il verdetto perde sintassi e significato, vola via in un tappeto di coriandoli. Eccomi a casa, disseminato nel vuoto.
Sono io. Sono tutti voi. Sono le vostre parole, i vostri pensieri, le vostre regole, le geometrie assopite che vi bruciano i sensi.
I Ricettivi sono in tutto nove, accoccolati uno di fianco all’altro, su divano, poltrone e tappeto. Mi sono stati inflitti dopo *l’efferato omicidio*, così come ricorre in gran parte degli scartafacci processuali. Infermità mentale – si è detto. Riablitazione psichiatrica – si è detto. Terapia di gruppo – si è detto.
Tra questi fantocci è presente una donna.
Sono io quella donna. Sono ognuna di quelle sagome incatramate.
Cosa volete sentirvi dire?
Non c’è Ricezione nella Morte.
Vaghezza di un deserto dei sensi: ombra imbiancata degli occhi, nebbia di rumori, barcollare di sapori, contatti dilapidati, odori paludosi di polvere e spazi vuoti.
Osservo i volti degli altri, sembrano intenti a carpire qualcosa che non c’è, auscultano la salma invisibile, la percuotono con le ipotesi, disegnano il cadavere nell’aria, mi guardano con paura incipriata.
Non sanno, non si rendono conto.
Per noi che ascoltiamo, la Morte è un capogiro di vacua afasia.
Seppellire il delitto in un contenitore di carbonio opaco, licenziarlo e dipanarlo nei placidi smeraldi della detenzione, è di questo che si tratta, sono lì apposta. Prendere congedo dalla Morte, dalla sua cancellazione distillata nel tempo a venire: una fuga, un perdere di vista la Fine, persino la lineare premeditazione che si acquatta in essa.
Tutto questo è osceno.
La Morte è viva.
Anima nera del Nulla, definizione di Dio, fascicolo di Infiniti: abbiate cura di lei, guardatela, è giunta a voi madida di Retromondo, un cosmo personale che aveva creato e in cui amava rintanarsi. La conosco, non vi darà fastidio. Non si porta appresso nessuna Cosmogonia, nessuna Eresia da arginare. Depositatela nel suo Retromondo e lasciatecela a giocare, per favore.
Riguardo a te, Signora mia, ovunque tu sia, prego che possa giungerti il mio afono congedo.
Addio.”
[in apertura Jackson Pollock – Number 7, 1951]