Quattordici anni fa un uomo che ha soggiornato in hotel ha lasciato in custodia un manoscritto. Lo ha semplicemente abbandonato nelle mani di mio padre con la preghiera di custodirlo e consegnarlo alle stampe in caso lo ritenesse opportuno. “E’ meglio che lo tenga lei, io… per vari motivi… non potrò più soggiornare qui, nè godere del piacere della sua compagnia e della sua ospitalità. Mi piace sapere che ce l’abbia lei. Se vuole lo legga pure, è una specie di diario in prima persona, una cosa abbastanza intima. Eppure non mi disturba affatto l’idea che lo legga. Ora la saluto, ho il taxi che mi aspetta.”
Oggi, a distanza di tanto tempo, scorrendo un quotidiano ho rinvenuto in cronaca il suo nome, in uno di quegli articoli ricchi di particolari da grand guignol per ammorbare e avvincere in una grottesca spirale di sangue. Il suo nome associato all’abusata perifrasi “trovato morto in circostanze misteriose”. Sono rimasto inerte, con il giornale sperperato tra le dita, come ghiaccio secco.
Quindi la decisione. Stabilisco seduta stante e unilateralmente di pubblicare il suo diario rilasciando questa gaddiana matassa di bit nel lento inesorabile fiume della rete. Lo diluirò in più post che etichetterò con il tag “Il Manoscritto”, non posso/voglio essere più didascalico nè fornire dati sensibili, spero che capiate, è la deformazione professionale dell’albergatore che intende tutelare la privacy (l’ultima, la più solenne) del suo cliente, e non importa se questi abbia già schiuso lo sguardo sui deserti che solo la morte, con studiata pietà, fa correre via a perdifiato. Nel ricopiarlo rimarrò fedele ai (rari) refusi, alle incongruenze e ad ogni altro genere di errore. Insomma cercherò di mettere in piedi un’operazione filologicamente rigorosa, attenendomi il più possibile allo spirito in cui il diario è nato ed è stato scritto. Salvo poche eccezioni lo stile risulta quantomeno onirico e surreale, una specie di flusso di coscienza in prima persona, redatto da un uomo di evidente cultura e raffinatezza, un uomo, se posso aggiungere, dolorosamente instabile negli affetti e nel rapporto con il Reale. Le pagine sono interamente vergate a mano con una calligrafia cesellata, sottile e ordinata. Il primo paragrafo reca l’indicazione “Il climax di un ricevimento”.
“La punta del cacciavite è scintillante, perfetta, senza colpa. Nell’abisso della tasca è il sesto dito di una costellazione sprofondata.
Seguo il tortuoso viottolo trapuntato di melograni oltrepassando geodetiche azalee. Conduce inerpicandosi al casolare, ne distinguo già il profilo scivoloso. In alto, tra uno squarcio di nubi, stentano le triangolazioni degli equinozi e più su le prerogative astromantiche. Ma qui, sull’espansa terra, mi attendono una pinta di birra e due capezzoli smaltati, più oltre un vocio balanico di feste concentriche, e panettoni di pasta zincata in guisa di falsa gelatina, e torme di commensali sordi al cibo, rovinati tra cosce non ancora lascive. Mi fermo per un attimo e penso, anzi decido: non devo deludere questa folla festante. Riprendo il cammino beffato dall’incrocio d’ombre, di rami e disordini aerei. Cric croc, i passi guazzano tra cicatrici di vetro e profilattici a listelli, sperperati sulla veranda come bossoli esplosi a caso.
Dove sei, mia Signora? Giro tra i banchi di uomini e mi sento un essere di creta imbevuto di bassotuba e salatini, un nuotatore sciancato sulla coda di balsamiche correnti. Ma perché non mi scivoli incontro con quel tuo modo oleoso di precipitare discorsi evocando cadaveri di luna?
La musica non mi sporca, questo no, grazie a Dio. Eludo financo la luce per concentrarmi sui discorsi miagolati in un unico possente equivoco. Rimbalzano le parole come nani tarantolati, si azzuffano in volo creando frangenti sussurrati, polittici di caccia alla volpe-parola, già stinti e di nuovo campiti da una forza instancabile. Una cattedrale del gossip.
E naturalmente bevo perdendo falcate di buonsenso, e chiedo, anzi imploro il mio io catodico di stornare il vero dal falso alcolettico, perché il punto focale è che non riesco a sintonizzare il suo volto mentre mi aggiro tra queste cariatidi che faticano a trovare una posizione, e balzellano, hop hop, da un piede all’altro, glissando sulla loro inerzia. Facce su facce, visi nei visi. Estasi dinamiche nel mio Tempio Etilico mentre attingono al Mosto fluescente delle mie inferenze… Abitanti del mio paese, maschere plasmate dalle mie dita: ognuno di loro mi appartiene, da sempre.
Stringo il cacciavite e intuisco che potrei, facendo finta di nulla, andarmene, senza che nessuno mi abbia mai visto nè notato: fantasma tra i fantasmi. Ma no, invece. Sto prendendo forma e con essa un briciolo di coraggio. Piano piano. Mi staglio in rilievo. Ho un’ombra. Posso essere guardato.
L’alcol è così: come un titano in una trincea che a forza di assestarsi, ti modella un tantino più grande, ancora un po’ e un altro pò, finché eccoti metabolizzato sul modello di crescita di tutt’altra genia, una razza spesso scintillante, certo, ma completamente avulsa a tutto, impermeabile e conclusa, una zuppetta aliena buona magari per stupire le fanciulle al sesto mese di gravidanza, ma niente altro.
Ed eccola finalmente, mia Signora, come luce disegnata, come aria di neve… Eccola a me… Ora la raggiungo, qui davanti a tutti prenderò a starnazzare come un Gran Buffone fino a sgraffignarle l’alito stesso, fino a stupirle il respiro.
No, niente da fare, bisogna prima disperdere il capannello di mosconi che le gravita intorno, ma l’orbita che seguono andrebbe ridisegnata e scagionata per poterne dirimere il ciclo, il fatto è che non ho ASSOLUTAMENTE uno strumento adatto, o forse… potrei… potrei usare la punta del mio cacciavite.
Oh no.
Schizza scarlatta una viscida salsa, spremuta di fuoco, archetipo rosso, acceso rubino, e porpora, più scura, velata d’arancio, vermiglio zampillo, cremisisprizzante.
Il mio cacciavite scava testardo nel cerchio della sua carne fino a raggiungere e guadare il cuore. Ed eccola già caduta, sfiorita, il viso volato nello stupore anemico dell’ultima facezia sussurrata a chissà quale moscone. Lievemente stupita di andarsene, così, nella farsa di una festa di troll. Tutto si fa pietra.
Gli altri – le statue – la urlano morta.
Una lunga parentesi di agonia bianca.
Ancora urla, foderate, liquide, dissolte, spente.
E io…
Io non ci sono.
Non più.”