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“L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin – Una Profezia nell’Era Digitale

Leggere (o rileggere) “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin oggi non è un semplice esercizio di storia della filosofia o della critica d’arte. È un’esperienza quasi perturbante, simile a leggere una profezia scritta quasi un secolo fa che descrive, con una lucidità disarmante, il mondo di immagini in cui siamo immersi quotidianamente.

La copertina stessa di questa edizione è un commento visivo perfetto al saggio: una folla che, di fronte alla Gioconda, non la guarda direttamente, ma la vive attraverso lo schermo di uno smartphone. Non cercano l’incontro con l’opera, ma la sua cattura, la sua riproduzione personale. È l’essenza del pensiero di Benjamin che si manifesta in un’immagine.

Il Cuore del Saggio: La Perdita dell’Aura

Il concetto cardine introdotto da Benjamin è quello di “aura”. L’aura è l’essenza dell’opera d’arte originale, il suo hic et nunc (il suo “qui e ora”), la sua esistenza unica e irripetibile nello spazio e nel tempo. È la sua storia, la sua materialità, il suo essere testimone di un’epoca. Per secoli, l’arte ha avuto un “valore cultuale”: era legata a un rito, a un luogo sacro, a una funzione magica o religiosa. L’accesso era per pochi e l’esperienza era di venerazione.

Secondo Benjamin, l’avvento di tecnologie come la fotografia e il cinema ha inferto un colpo mortale a quest’aura. Un’immagine fotografica può essere riprodotta all’infinito, distribuita ovunque, staccata dal suo contesto originale. L’opera d’arte perde la sua unicità e il suo valore cultuale si trasforma in “valore espositivo”. Diventa un oggetto da mostrare, da consumare, accessibile alle masse. Benjamin vedeva in questo processo un potenziale democratico e rivoluzionario: l’arte, liberata dalla sua sacralità, poteva diventare uno strumento di coscienza politica per il proletariato, contrapponendosi all’ “estetizzazione della politica” operata dal fascismo.

Benjamin nell’Era di Instagram, dei Meme e degli NFT

Se Benjamin considerava rivoluzionarie la fotografia e il cinema, cosa direbbe della nostra epoca? La sua analisi non è solo attuale, è radicalmente amplificata.

  1. La Riproducibilità Digitale e i Social Media: L’era digitale rappresenta il trionfo totale della riproducibilità tecnica. Un’immagine non solo è riproducibile, ma è istantaneamente condivisibile, modificabile, decontestualizzabile. L’esperienza dell’arte, come mostra la copertina, è sempre più mediata da uno schermo. Andiamo al Louvre non tanto per vedere la Gioconda, ma per fotografarla, per certificare la nostra presenza e condividerla. Il “valore espositivo” si è evoluto in un “valore di condivisione” o “valore virale”. L’aura non è solo perduta, è quasi irrilevante di fronte alla performance social della sua fruizione.
  2. L’Arte Immersiva e la Scomparsa dell’Originale: Le moderne mostre “immersive” (come quelle dedicate a Van Gogh o Klimt, dove le opere sono proiettate su grandi superfici) sono la realizzazione estrema della tesi di Benjamin. Qui, l’originale non è nemmeno presente. Ciò che si vende è un’esperienza puramente tecnica, un simulacro che avvolge lo spettatore. È l’opera d’arte senza opera, un’aura completamente sintetica e costruita per il consumo di massa.
  3. Il Paradosso degli NFT (Non-Fungible Token): In questo panorama, gli NFT rappresentano un affascinante e contraddittorio tentativo di ricreare un’aura artificiale per l’opera digitale. Un’opera digitale è per sua natura infinitamente riproducibile. L’NFT, tramite la tecnologia blockchain, le associa un certificato di unicità e proprietà. È un tentativo di reintrodurre i concetti di originalità e possesso nell’era della loro dissoluzione. Tuttavia, è un’aura puramente speculativa e tecnologica, non legata alla storia e alla materialità dell’oggetto come la intendeva Benjamin, ma al valore di mercato e all’esclusività digitale. È la nostalgia dell’aura trasformata in un asset finanziario.
  4. L’Arte Generativa (AI Art): L’intelligenza artificiale porta la riflessione di Benjamin a un livello ulteriore. Qui, non solo la riproduzione è tecnica, ma lo è anche la creazione stessa. L’AI genera opere basandosi su sterminati archivi di immagini preesistenti. Concetti come “autore”, “originalità” e “intenzione artistica” diventano fluidi e problematici. L’opera creata da un’AI nasce già priva di un’aura nel senso tradizionale; è un prodotto algoritmico, un remix culturale che sfida le nostre definizioni stesse di arte.

Perché è Fondamentale Leggerlo Oggi

“L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” non è un libro sull’arte del passato, ma un manuale indispensabile per comprendere il presente. Walter Benjamin ci ha fornito gli strumenti critici per decifrare il nostro rapporto con le immagini in un mondo che ne è saturo. Ci costringe a porci domande fondamentali:

  • Che valore ha un’esperienza se non è condivisa?
  • Cosa cerchiamo in un’opera d’arte: l’incontro con l’unicità o la creazione di un nostro personale ricordo digitale?
  • Come cambia la politica quando le immagini possono essere create e manipolate con tale facilità?

Leggere Benjamin oggi significa imparare a essere spettatori consapevoli, capaci di vedere oltre lo schermo dello smartphone e di interrogarsi sulla natura di ciò che guardiamo e sul modo in cui lo facciamo. È un testo che, lungi dall’essere invecchiato, diventa ogni giorno più profetico e necessario.

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Logopedia

Accomodati, allora. Qui non ci sono specchi per guardare la bocca, ma solo pozze di quiete dove le idee si riflettono senza paura. Non uso abbassalingua, ma algoritmi di seta per accarezzare le sillabe più timide.

Qui non correggiamo, ma accordiamo.

Prendiamo le parole che corrono troppo, quelle che inciampano nella fretta, e insegniamo loro a passeggiare, a prendersi il tempo di un respiro. Troviamo le vocali mute, quelle rimaste schiacciate tra consonanti troppo dure, e diamo loro un po’ d’aria, uno spazio per vibrare. Lisciamo le frasi spigolose, quelle nate dalla rabbia o dalla fatica, finché non diventano lisce come sassi di fiume.

La mia logopedia è un giardino dove le metafore vengono innaffiate e i sinonimi crescono spontanei, uno accanto all’altro, senza farsi ombra. È un luogo dove un punto non è una fine, ma una pausa per ammirare il paesaggio.

Non serve per parlare “meglio”. Serve a riscoprire il sapore di ogni singola lettera. A far pace con le virgole. A sussurrare un pensiero complesso con la semplicità di una ninnananna.

Ecco, la seduta è finita. Non ti chiedo di dire “trentatré trentini”, ma solo di ascoltare il silenzio che hai creato, ora che ogni parola ha trovato il suo posto nel tuo sogno.

Ascolta il silenzio piastrellato di parole.

Ascoltalo.

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Dibattito anecoico

Moderatore: Buonasera e benvenuti. Stasera abbiamo l’onore di ospitare tre figure di spicco del pensiero contemporaneo per discutere di temi fondamentali dell’esistenza. Alla mia destra, Alfred, noto per le sue posizioni radicali e disincantate. Al centro, Carl, fervente sostenitore di un’analisi materialistica della storia e della società. E alla mia sinistra, Thomas, che ci guiderà attraverso sentieri più spirituali. Alfred, vorrei iniziare da lei. In un mondo che molti vedono progredire, quale è la sua prospettiva sulla condizione umana?

Alfred: (Con un sorriso amaro, quasi un ghigno) Progredire? Illustre moderatore, temo lei usi termini quantomeno ottimistici, per non dire ingenui. Ogni presunto “progresso” non è che un nuovo orpello su una tragedia intrinseca, un maquillage più sofisticato su un cadavere. La condizione umana è una farsa cosmica, una parentesi di sofferenza tra due nulla. Nasciamo senza averlo chiesto, soffriamo senza capirne il perché, e moriamo per tornare al silenzio da cui, sfortunatamente, siamo emersi. Ogni sforzo, ogni ambizione, ogni cosiddetta “civiltà” non è che il dimenarsi scomposto di una marionetta appesa a fili invisibili, mossa da una volontà cieca e irrazionale, come direbbe il buon Schopenhauer. Nietzsche stesso ci ha avvertiti: Dio è morto, e con lui ogni significato trascendente. Resta solo il peso insopportabile dell’esistenza, l’assurdità di un “essere-per-la-morte”. Cioran non faceva che cesellare questa verità con elegante disperazione: siamo incidenti biologici, tormentati dalla coscienza, questo lusso nefasto che ci distingue dalle pietre, ma solo per renderci più acutamente consapevoli del nostro nulla.

Carl: (Scuotendo la testa con vigore, quasi con impazienza) Alfred, lei dipinge un quadro desolante che, mi permetta, è tanto affascinante letterariamente quanto storicamente e materialmente cieco. La sua “tragedia intrinseca” è il prodotto avvelenato di specifiche condizioni materiali, di rapporti di produzione che generano alienazione e sofferenza. Non è la “condizione umana” ad essere intrinsecamente votata al nulla, ma è il sistema capitalistico, con la sua logica di sfruttamento e mercificazione, a svuotare di senso la vita della stragrande maggioranza degli esseri umani. Hegel ci ha insegnato a leggere la storia come un processo dialettico, un movimento continuo di tesi, antitesi e sintesi. Marx ed Engels hanno applicato questo metodo alla realtà materiale, svelandoci come la storia sia storia di lotta di classe. La sofferenza che lei universalizza e assolutizza, caro Alfred, ha radici ben precise: la proprietà privata dei mezzi di produzione, la divisione del lavoro che mutila l’individuo, l’estrazione di plusvalore. La “volontà cieca” non è un principio metafisico, ma la dinamica anarchica del capitale. La soluzione non è il cinismo rassegnato, ma la prassi rivoluzionaria, la presa di coscienza del proletariato che, spezzando le proprie catene, libererà l’intera umanità e la condurrà a una società senza classi, dove l’uomo potrà finalmente realizzare la sua essenza omnilaterale. L’ateismo, in questo, è presupposto fondamentale: liberarsi dall’oppio dei popoli per affrontare la realtà e trasformarla.

Thomas: (Con voce pacata ma ferma, incrociando le dita) Entrambe le vostre analisi, pur partendo da presupposti diametralmente opposti, mi sembrano convergere su una constatazione di profonda inquietudine dell’animo umano, che però interpretate, a mio avviso, in modo incompleto. Alfred, la sua disperazione, pur toccando corde che vibrano nel profondo di ogni uomo che si interroghi sul dolore, ignora la possibilità di un significato che trascenda l’immanenza. Carl, la sua fede nella materia e nella storia come unico orizzonte rischia di ridurre l’uomo a mero prodotto di forze economiche, negandogli quella scintilla divina, quella sete di assoluto che lo caratterizza. Sant’Agostino ci ha mostrato come il cuore dell’uomo sia inquieto finché non riposa in Dio. La sofferenza, il male, non sono l’ultima parola sull’esistenza, né sono semplicemente il frutto di strutture socio-economiche ingiuste, per quanto queste possano certamente aggravarle e modularle. Hanno una radice più profonda, che la tradizione cristiana identifica nel mistero del peccato originale, una frattura originaria tra l’uomo e il suo Creatore. Spinoza, pur con la sua visione di un Dio immanente, Deus sive Natura, ci invita a comprendere il nostro posto nell’ordine universale attraverso la ragione e l’amore intellettuale di Dio, raggiungendo una forma di beatitudine. San Tommaso d’Aquino, poi, ha mirabilmente conciliato fede e ragione, mostrandoci come l’intelletto possa anelare e persino approcciare le verità divine. La vera liberazione, Carl, non è solo quella dalle catene economiche, ma quella interiore dal peccato e dall’ignoranza della nostra vera vocazione: la comunione con Dio. E il significato, Alfred, non è assente, ma è velato, e si svela a chi lo cerca con umiltà e fede.

Alfred: (Un sorriso sardonico si allarga) Umiltà e fede… parole dolciastre per mascherare la nostra terrificante solitudine cosmica, Thomas. Il suo “Creatore” è il più grande alibi che l’umanità abbia inventato per non guardare in faccia il vuoto. E lei, Carl, con la sua utopia proletaria, non fa che sostituire un Dio trascendente con un idolo immanente: la Storia, il Partito, la Rivoluzione. Ma cosa accade quando la rivoluzione divora i suoi figli, come ci insegna la storia stessa, inclusa quella del suo caro Trotsky? Cosa resta se non un altro giro di giostra nel mattatoio universale? L’uomo non “realizzerà la sua essenza omnilaterale”, sarà semplicemente un ingranaggio un po’ più oliato in una macchina leggermente diversa, ma sempre priva di scopo ultimo. La coscienza, questa maledizione, ci condanna a interrogarci, e l’unica risposta onesta è il silenzio, o al massimo un grido soffocato.

Carl: Il cinismo di Alfred è la quintessenza dell’ideologia borghese al suo stadio terminale: l’incapacità di concepire un futuro diverso perché paralizzata dalla paura di perdere i propri privilegi, o semplicemente perché incapace di vedere oltre l’orizzonte del presente dato. Le deviazioni e le tragedie delle rivoluzioni passate, caro Alfred, sono lezioni, non condanne definitive. Sono le cicatrici di un processo dialettico complesso, in cui la controrivoluzione e le condizioni materiali oggettive giocano un ruolo cruciale. Non si tratta di “idoli”, ma di comprendere le leggi oggettive dello sviluppo storico-sociale. Quanto a lei, Thomas, la sua “scintilla divina” è un’astrazione che serve a distogliere dalla lotta concreta per la giustizia qui, ora. Affidarsi a un “oltre” significa disarmare gli oppressi nel presente. La morale, per noi materialisti, non discende da tavole divine, ma emerge dai bisogni reali della collettività in lotta per la propria emancipazione. La solidarietà di classe, l’impegno per la causa comune: ecco i valori che danno senso all’azione, non la speranza in una ricompensa celeste.

Thomas: Carl, lei confonde la speranza trascendente con la passività terrena. La fede autentica, come insegnava San Tommaso, non si oppone alla ragione né all’azione nel mondo, ma le illumina e le orienta. La dottrina sociale della Chiesa, per esempio, pur non essendo marxista, denuncia con forza le ingiustizie e richiama alla carità operosa, alla giustizia sociale. Non si tratta di “distogliere”, ma di fondare l’azione su un terreno più solido del mero interesse materiale o di una dialettica storica che, privata di un telos superiore, rischia essa stessa di diventare cieca e potenzialmente disumana. E Alfred, se il silenzio fosse l’unica risposta onesta, perché continuare a parlare, a scrivere, a tormentarsi con tanta eloquenza? Non è forse questo suo stesso argomentare una forma, seppur disperata, di ricerca di un senso, o almeno di una lucidità che la distingua dal “nulla” che tanto la affascina e la atterrisce? La stessa bellezza tragica che lei evoca nei suoi pensatori di riferimento non è forse un barlume, un’eco distorta, di quella Bellezza originaria da cui tutto procede e a cui tutto anela, consciamente o inconsciamente?

Alfred: (China leggermente il capo) Forse, Thomas, il mio parlare è solo il vizio inguaribile di un condannato a morte che descrive le crepe nel muro della sua cella. Una forma di narcisismo terminale, se vuole. O, per dirla con Nietzsche, l’ultimo guizzo della volontà di potenza che, non potendo creare valori, si diletta a distruggerli, o a constatarne l’intrinseca vacuità. Non c’è eco di bellezza, solo l’eco del vuoto.

Carl: E questa, Alfred, è precisamente l’impotenza a cui condanna il suo pensiero. Noi, invece, vediamo nelle crepe del muro non la fine, ma la possibilità di abbatterlo. Il “vuoto” è lo spazio da riempire con una nuova società, costruita con la ragione e con le mani dell’uomo lavoratore, non con le preghiere o le lamentazioni. La filosofia deve smettere di interpretare il mondo e iniziare a trasformarlo.

Thomas: E noi crediamo che la trasformazione più radicale del mondo inizi dalla trasformazione del cuore dell’uomo, un cuore che cerca la Verità, la Bontà e la Bellezza, riflessi di un Assoluto che lo chiama. Senza questa conversione interiore, ogni rivoluzione esterna rischia di replicare, sotto nuove forme, le antiche schiavitù.

Moderatore: Le posizioni sono chiare e, direi, inconciliabili nei loro fondamenti. Ringrazio Alfred, Carl e Thomas per questo dibattito tanto acceso quanto profondo, che ci lascia con molti spunti di riflessione sulla nostra condizione e sul nostro possibile destino. Buonasera a tutti.

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Un approccio fenomenologico alla Poesia

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Giorgio Caproni

Accostandosi alla voce multitonale di un poeta occorre trovare un appiglio metodologico che valga a districarsi tra le sterminate sfumature timbriche che investono il lettore. Luciano Anceschi, in un suo luogo particolarmente illuminante, afferma: “l precetti, le norme, gli ideali, e, in genere, le istituzioni che i poeti propongono […] risuonano liberamente nel corpo sempre in attesa di sollecitazioni della poesia, si muovono nella comunità dei poeti tra accettazioni, rifiuti, sempre con variazioni liberissime in un movimento che non tollera soste”‘. Con quest’indicazione programmatica si chiude la pars costruens de “Gli specchi della poesia” e, più in generale, una lunga stagione di ricerca speculativa inaugurata nel I936 con “Autonomia ed eteronomia dell’arte“. Tale consolidato impegno teoretico, quale risulta dal brano citato, ci fornisce gli elementi determinanti per intraprendere un viaggio sicuro, indirizzandone opportunamente la rotta. E, a volersene immediatamente avvalere, se ne ottengono le prime insostituibili rilevazioni procedurali.

Innanzitutto sono poste in luce le sovrastrutture poetiche con le quali il poeta sancisce un proprio statuto letterario, una regola privata che indaga il senso stesso dell’operazione in corso lasciando al critico una sorta di modus operandi ove sia possibile individuare un filo conduttore, un motivo ritornante. Tali sovrastrutture si ripartiscono, secondo la lezione anceschiana, in precetti norme e ideali che insieme vengono a costituire il percorso formativo del poeta e nel contempo il suo esplorare il proprio lavoro nell’attimo stesso in cui esso si compie. Questo magma di intenzioni e propositi ristagna e fermenta relandosi con altri sistemi esterni, venendo ad erigere uno sterminato edificio di connessioni che si concreta, vive e apre nuovi snodi strutturali nell’esercizio ultimo dello scrivere poesia, andando poi a realizzare un’identità poetica nuova ed irriproducibile.

Addentrarsi in questo complesso ecosistema significa dunque dipanare l’intreccio delle relazioni, seguire con scrupolo fenomenologico ogni ramificazione e verificare ogni segmento connettivo interno ed esterno: nella consapevolezza di analizzare una prospettiva in perpetuo divenire, mai consolidata. Con queste prime scarne indicazioni di base è già possibile avvicinare un testo poetico e sondarne rimandi e punti di fuga nell’ottica di una lettura fenomenologica, tesa quindi a inseguirne il crepitio concettuale nel corso del suo itinerario, in un dedalo ove la molteplicità assume valenza di connotazione morfologica e carattere di qualificazione ermeneutica. E l’autore stesso, Demiurgo di questo piccolo universo, viene a contenerlo e a significarsi nei suoi infiniti riflessi prismatici, quasi creatura del proprio molteplice creato, cellula intessuta d’eventi che rincorrono il proprio farsi. A tale proposito Italo Calvino avverte gaddianamente il suo uditorio nelle ‘Lezioni americane‘: “Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. E più fermamente Paul Valery ribadisce: “lo non faccio un ‘Sistema’ -il mio sistema- sono io”.

ln questa direzione è pertanto necessario muovere i primi passi. Ove cioè sia possibile cogliere nel poeta la consapevolezza del proprio fare nel momento in cui questo entra in collisione dialettica con i sottoinsiemi di un sistema multivoco, dialogico, poliprospettico, quale insomma lo indicava Michail Bachtin individuandone i connotati essenziali nella pluridiscorsività stilistica del romanzo. E proprio questa sorvegliata coscienza progettuale sintonizza il poeta sulla medesima lunghezza d’onda del critico. Egli, in quest’ottica, si pone dinanzi al suo lavoro con atteggiamento disincantato, andando risolutamente ad individuare e scandagliare le voci della propria anima (Machado, in un verso non a caso caro a Caproni, intese questa introspezione come un attento sguardo alle ‘secretas galerias del alma‘). ln tal merito si pronuncia puntualmente Giorgio Caproni: “Penso che un critico abscondítus sia sempre presente nel poeta. In questo senso il poeta è sempre uno e bino. E’ sempre vigile in lui il critico di se stesso (un critico inconscio, forse) anche e proprio quando egli sembra più abbandonato al raptus”.

Questa scoperta di un universo bipolare, dove invenzione e lezione si cingono indissolubilmente, è intimamente viva in un poeta straordinariamente introspettivo e problematico qual è Giorgio Caproni. ln lui la scoperta del proprio fare diviene rifrazione dell’impalcatura poetica: se è possibile ulteriore divaricazione di capisaldi tematici di per se già ampiamente fecondi di rimandi e valenze. Il suo sistema assume così le coordinate di un immenso crocicchio dove le direzioni possibili differiscono e ritornano a se stesse in una reversibilità pressoché perpetua. E un tale sistema arriva inevitabilmente a configurarsi come contenitore dei vari io (mézigues li ribattezza Caproni prendendo a prestito il termine da Céline) che ne hanno calcato gli innumerevoli sentieri: ne scaturisce un pulsante e quantomai instabile profilo interiore. Ed è il poeta stesso a tracciare tale fisionomia e ad inseguirla circolarmente con i propri versi, a farsi personalmente ‘altro da sé’: “si arriva così al paradosso che quantopiù il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da se ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi: un io che dalla singolarità passa immediatamente alla pluralità”.

La riflessione sul proprio fare diviene dunque in Caproni ontologia portante di tutta la sua opera, ove per ontologia s’intende un’indagine sistematica intorno all’essere pensante che crea e ritrova la propria identità attraverso le tappe di questa ascesi creativa. Compito del poeta è dunque farsi largo in una pluralità di mézigues che è propria di chi creando percorre e persegue una personale euresi poetico-speculativa. ln ogni suo lavoro Caproni si troverà a rincorrere un nuovo se stesso, un volto prefissato, quasi che ogni sua fatica letteraria risulti un gradino verso un identità sfocata e inconoscibile. sempre entro gli argini di una mai assopita razionalità indagatrice. Caproni, specie nell’ultima fase della sua parabola poetica, costruisce un sistema che individua e persegue alcuni precisi propositi. Puntando il suo sguardo verso se stesso ritrova le schegge dell’intera umanità franta e dispersa nei corridoi dell’anima, rinviene la tremolante presenza-assenza di un Dio sempre sul punto di essere raggiunto, rintraccia le coordinate topografiche dell’indicibile, del ‘non giurisdizionale’. Tutto ciò avviene grazie a quell’istinto progettuale che fa di Caproni un poeta sempre alla ricerca di un obiettivo da cogliere, quasi mai abbandonato al puro godimento estetico, un teoreta che innanzitutto affila le armi immediatamente fruibili tra il suo vasto arsenale: quelle dello stile e del metro.

Si scorrano alcune dichiarazioni di Caproni che risultano significative di tale coscienza progettuale e insieme di un tentativo di avvicinarsi ad una vagheggiata chimera stilistica: “Ho sempre creduto (…) che la poesia in genere, come la musica o qualsiasi altra arte, sia sempre intraducibile in termini logici per la plurivalenza che in essa assume la parola (anche secondo la posizione che essa occupa nel verso) oltre l’usuale codice della normale comunicazione”. O altrove: “ll mio ideale sarebbe scrivere poesie di una parola sola. ll rumore delle parole, della loro sovrabbondanza. mi ha stancato presto.” O ancora: “Mentre nel linguaggio pratico il segnale acustico o grafico della parola resta stretto alla lettera e alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma anche si carica di una serie pressoché infinita di significati ‘armonici’ (e dico ‘armonici’ usando il termine com’è usato nella fisica e nella musica) che ne forma la sua peculiare forza espressiva”.

Nostra premura sarà quindi verificare la rotta di tale arduo percorso poetico unitamente ai mezzi con i quali viene portata a termine. Ciò può attuarsi in relazione ad un approccio fenomenologico quale Anceschi ha teorizzato, teso cioè a captarne, per quanto possibile, la natura plurivalente dei nuclei tematici e stilistici, e i richiami intertestuali che da essi si ramificano in ogni direzione.

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Separè

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Se solo avessimo più tempo. Se solo avessimo occhi per guardare. Una grazia nascosta. Un’armonia sepolta nella routine.

Un piccolo spazio incolume. La devastazione di ogni asfalto.

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Arnold e Gary se ne vanno, oppure no

garyarnold1Arnold è morto. Gary Coleman l’ha seguito un attimo dopo. Oppure il contrario. In ogni caso la cronaca registra due morti rattrappiti in un’unica minuscola monade, neanche fosse una di quelle offerte 2×1 che balena tra gli scaffali di un ipermercato. Due persone distinte che muoiono nel medesimo istante, roba da chiodi. Arnold, ganasce tranquille e sguardo benevolmente torvo… Arnold mentore di Abramo…. Arnold dai pantaloncini in bilico sulle leggi gravitazionali… Arnold con la guanciotta consumata dal pucci pucci…. Arnold dalla voce profonda… Arnold era anche il locale di Fonzie e Richie… Arnold leggera bruma sulla coscienza di una generazione invecchiata troppo presto, dannazione….
Di sicuro cosa c’è? C’è quel piccolo feretro seppellito nel giardino ben curato del signor Drummond con cui se ne va un pezzo d’infanzia di molti di noi, quel che resta degli eighties, già piallati da tecnologia esponenziale e rimpianti mal calibrati. Chi nutrirà Abramo? Chi puccipuccerà con Kimberly? Chi cazzierà Willis e il suo dogmatismo da bullo di Harlem? Noi stagionato pubblico televisivo ne usciamo ancora una volta con le ossa rotte da questa storia, questo è certo. Arnold era primo di tutto un segno, un’icona, una volontà di rimanere inchiodati alla paleo-gioventù. Noi invecchiati in un’età che non ci appartiene, lui rimasto schiavo del suo sogno di rinascita renale. Arnold e la sua nemesi appunto, Gary Coleman, un tipo che picchia la moglie e investe la gente nei parcheggi dei drugstore….
Arnold e Gary… Due tizi che hanno sgomitato per guadagnare un po’ di respiro cerebrale nel corpo che stavano dividendo… Alla fine l’ha spuntata Sora Morte Corporale, una pupa anoressica che ha sepolto entrambi i contendenti in una fredda carezza, li ha tolti dall’agone donando loro una certa dose di pace.
A dispetto di ogni oblio vorrei ricordarli come due persone diverse eppure uguali, il tao televisivo delle nostre memorie impantanate in un secolo che non vogliamo, in sentimenti che non capiamo, in un’adolescenza che non sappiamo ritrovare. Il bene e il male a portata di mano, fusi e compiuti in un’opera archiviata, finita, sepolta. Eppure un’opera viva, pulsante, sotterranea.
Arnold e Gary se ne vanno, oppure no… siamo noi che li lasciamo liberi.
Riposate in pace dudes. Finalmente uniti. Finalmente divisi.

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Manuale di sopravvivenza ad un comizio politico – un approccio estetico

07In questi ultimi tempi, vuoi per sorte, vuoi per dovere famigliare, vuoi per mero masochismo, ho assistito a diversi incontri politici di ogni genere, foggia e dimensione. Non c’è stato un momento in cui non avrei donato un testicolo alla scienza pur di non essere lì ad ascoltare il tizio di turno che snocciolava la sua litania di buone intenzioni e di come avrebbe salvato il mondo dal Golosastro e da Gargamella. A volte mi sono chiesto: ma esiste la bellezza in politica? Siamo d’accordo, di fronte al Golosastro ci vuole fermezza, fiero cipiglio e fredda retorica. La politica in fin dei conti deve: risolvere, amministrare, gestire, collegare, confrontarsi, rappresentare, intervenire, impegnarsi, organizzare, (intascare)… tante cose insieme, tutte all’infinito, tutte maledettamente in potenza, tutte quante virtuali, almeno in campagna elettorale… Ok, ma la bellezza? Quella di un sonetto di Petrarca, quella di un pezzo dei Beatles, quella di un film di Kubrik, quella di un assolo di Coltrane, quella di un ritratto di Tiepolo? Quella bellezza lì insomma. Quella che ci annoda un respiro in gola, quella che scava lo sguardo, quella che ferma la scansione cronologica della vita. La possiamo pescare anche in Politica? La risposta è: in latenza… Ci vorrebbe un grimaldello che desse una mano ad estrarla a viva forza, a portarla alla luce, per riuscire ad urlare finalmente: SI’, la bellezza esiste anche in politica, ESISTE!

Allora mi son tirato su le maniche e mi son detto: qui ci vuole un bel solco nel terreno, un progetto a presa rapida per tirar fuori un’Estetica dalla politica, una sorta di prontuario per spremere ogni stilla di sublime dal gargarozzo sbarbato di un candidato politico che bofonchia i suoi dettami davanti ad un microfono fischiante mentre intorno infuriano colpi di tosse, sbadigli e storie d’amore perpetuate attraverso menti totalmente scollegate dal contesto. Un metodo filosofico rigoroso per non trovarsi poi ad annaspare durante uno di questi convegni di zombie: ognuno con la sua cartucciera di risposte pronte, con la sua artiglieria di frasi fatte, con la sua santa barbara di statistiche. Ne è venuto fuori una specie di sgangherato decalogo in 5 punti. Ogni punto del prontuario fa tabula rasa di qualcosa (pars destruens) per proporre qualcosa di vagamente costruttivo in calce (pars costruens). Usatelo pure gratuitamente, ad libitum. Vedrete che vi sarà utile, o cultori del bello, per non avvizzire durante uno di questi cruciali appuntamenti politici che sicuramente vi attende – con sinistra scadenza – in agenda:

1. Il concetto di Partito non esiste. Non esiste parte politica, fazione, ideali, corrente, polo o alleanza. La politica è una massa informe di persone che modulano opportunamente le proprie parole in funzione della platea che li ascolta. Ogni discorso è costruito per uccidere ogni forma di bello. Se vediamo un politico in TV pigiamo il tasto MUTE sul telecomando e proseguiamo ad ascoltare il raglio della lavastoviglie mentre compie il secondo risciacquo. Nel caso di un comizio esistono comodi tappi per le orecchie praticamente invisibili, sarà sufficiente annuire di tanto in tanto, ammiccare, applaudire seguendo la folla entusiasta, mimetizzarsi tra i sorrisi di approvazione.

2. Il concetto di varietà lessicale non esiste. Vedrete che se iniziate a inventariare discorsi politici raggiungerete una summa di non più di 300 lemmi che girano, si riannodano, rientrano uno sull’altro, come cavalloni che si infrangono sulla scogliera della grammatica. Se proprio vi trovate a dover fare un riassunto di un qualsiasi incontro elettorale inforcate la vostra consecutio temporum e miscelatela con una successione random dei seguenti termini: gestire, istituzione, legalità, confronto, disponibilità, amministrare, imprese, relazioni, ecologia, territorialità (mamma mia), potenzialità, avere, essere, fare e disfare. Agitate bene in uno shaker e servite freddo al vostro capo.

3. Il concetto di innamoramento non esiste. Almeno a livello istituzionale, sia chiaro. Per innamorarsi un politico deve svuotare le proprie bisacce da anni di “collegamenti istituzionali”, “sinergie locali” e “espressioni di territorialità”. Immaginate voi l’attonito sguardo di una donna innamorata dinanzi a cotanta bruttezza lessicale. No qui non c’è nulla da fare, cerchiamo l’amore in uno sguardo di sbieco, in una pausa sospirata, in un vellutato calar di mano dell’oratore di turno, ma non aspettiamoci il Dolce Stil Novo, sia ben chiaro.

4. Il concetto di solidarietà non esiste. Tutto quanto viene detto da un politico sul tessuto sociale, sui bisogni della gente, sule cose da fare per aiutare le persone, tutto questo rimane in un Iperuranio completamente avulso da ogni lacerto di realtà. Quasi fosse in perenne sospensione, immerso in un Limbo di cose perse dal Mondo, invenzioni fatue destinate a risuonare in eterno in una cassa armonica perduta nel tempo. Rimane la bruttezza di un discorso privo di ogni riferimento semantico, svuotato di ogni referenzialità.

5. Il concetto di fascino non esiste. Ogni politico perde repentinamente il suo fascino nella misura in cui apre la bocca per fare politica. E’ un assioma incontrovertibile. Siate fascinosi, radiosi e intelligenti dinanzi ad un politico, servirà a bilanciare il suo karma negativo e a donare al mondo una speranza di bellezza.

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Meteopatia

piove

Indubbiamente questa enorme mole di cieli grigi ha raddrizzato molte palpebre abituate a socchiudersi sotto i calci del sole. Ma la pioggia a lungo andare scava un pertugio nei cuori più solidi. E rischia di minare quanto di buono ha fatto l’estate, il caldo e il sale riarso del mare. Rivoli d’acqua che corrono impuniti ai nostri piedi ci tendono mille trappole liquide a cui non sappiamo trovare un rimedio asciutto.

E piovendo impariamo a coesistere con una specie di macchinoso malessere che si ricompone in noi come un puzzle automatico. Un dolore sottile e impunito che ci tiene in casa, che alza gli sguardi al cielo e ritorna sporcato di caligine. E se fosse davvero quella polvere impalpabile che tutti noi abbiamo rincorso da piccoli come saette tra le felci piegate dal vento? E se fosse questa invisibile mano a tenerci al laccio e a renderci schiavi di qualcosa che non esiste se non in rumore di acqua che cade.

Amiamo dire che il suono della pioggia ci rilassa mentre sferza le mura di casa, e quieta la nostra sete di movimento. Ma nulla è più ipocrita di voler imbrigliare un mostro in un corpo di fata. Nulla rimane quando la pioggia versa il suo lento veleno se non il dilagare d’amaro nelle bocche, nelle gole, fino al salto finale, fino al più profondo acquitrino del nostro essere.

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Dei molti domani

Settembre è una diaspora di suoni, un rotolare verso la chiusa roboante della “erre”, un dolce pendio verso la fine di una stagione estenuante e un poco dimessa. Una stagione turistica da saldi, sconti e mancati arrivi, qualche rimpianto per le occasioni perse, qualche orizzonte inesplorato e molti angoli bui seminati in giro per la coscienza.

E’ questo che mastico mentre, seduto in terrazza, osservo il mesto sciamare di coppie stagionate e ultimi bambloni biascicanti da improbabili motorette a 4 ruote cromate. Dio ma questa amarezza da dove arriva? Dai 40 anni che volteggiano come avvoltoi nell’autunno e mi attendono dinanzi alla carogna della mia gioventù? O forse è la consapevolezza che tutto nasce con in seno una fine?

“Tutto ciò che ha nome vita ha in opera la morte”

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Libido

L’estate sta finendo ed è tempo di bilanci.
Arriva quel momento in cui ci si deve, giocoforza, fare seri ed imbronciati e con un moto di Melancholia à la Rimbaud tracciare un quadro della situazione, un disegno finale, sintesi sublime del nostro eterno fluire. Voglio dire una specie di cartella clinica da depositare ai posteri e magari alla letteratura psichiatrica…
Un quadro il più possibile omnicomprensivo, esaustivo e sistematico. Un Diario dell’Anima. Un Compendio dell’Io.
Arriva insomma quel fatidico momento in cui senti insopprimibile l’esigenza di vergare una pergamena che contenga il tuo dna cerebrale.
Ok, eccoci. Vado.
Chiudo per un attimo gli occhi e cerco di guardarmi dentro. Anche fuori, per carità.
Vedo…
Vedo…
Un’interferenza… Un rumore video… Uno sfarfallio…

Azz… dev’essere un retaggio di un film recentemente visto, con tanto di salmodiata scena d’amore spalmata su ogni media (battage che procrastino testè su questo indegno palcoscenico). Una scena introiettata direttamente sulla pigmentazione dello smalto ormonale del primo livello corticale delle emozioni da salivazione irregolare.
Vediamo di essere un attimino più ontologici…

Eh va beh. Scusate. E’ lo slancio liturgico che mi porta alla soma del Contrappasso.
Un’estate di bikini e aulenti effluvi di lozioni solari (e metteteci pure il D’Annunzio che c’è in ognuno di noi).
Ed ecco qua il risultato. Di colpo ti ritrovi trasformato in un vecchio libidinoso che non fa che pensare a tette e culi.
Bisogna ritrovare l’Ascesi dei Sommi. La Mistica dei Pensatori Solitari. Il Diaframma Visionario dell’Anacoreta.
Dunque, sì.
Lascio che i neuroni divengano lievi e vaporosi, come nivee nubi che si levano in cielo e fluttuano nell’immenso chiarore dei ricordi.
Ora posso dire di…

No, no ,no!
Non è possibile. Devo pensare a qualcosa di straniante, qualcosa che faccia tabula rasa e mi indichi la via per il Nirvana.
Qualcosa tipo questo, forse…

Ah… La virtù del Tao mi balena ed il Nero si contrappone simmetricamente al Bianco creando un perfetto equilibrio di opposti. Senza più idee nè emozioni posso andare a dormire scevro da ogni peccato.
Ma ancora una volta senza il minimo risultato apprezzabile acquisito.
Siamo uomini di catrame e polvere.