Dove i bruciati passi incrociano le modalità spente dell'acqua un arso clangore sfiora il suo stridulo cocente deserto e gli occhi cercano disperati un'acqua evaporata nel retaggio di un mare avaro e ctonio. Eppure a ben guardare qualche sapida stilla è rimasta a giocare tra le piccole dune di carta vetrata e se ci cascasse il piede argentine campanule trillerebbero all'unisono e salirebbero azzurre stille nel pallido cielo irrigato a festa celebrando una gioia antica un mare rievocato in forma di particole e che pare gridare: Aspettami! Ritornerò!
Categoria: Poesia
Prossima Distanza
a Valeria
Sono entrato in questa Distanza e ti ho raggiunta. Nell'assenza quasi innata, ma presente, in qualche modo. Come ti ho trovata mi chiederai. Brilla ancora di te un sorriso trafugato alle crudeli Moire: un cono sfilacciato che flette lo spazio. Non potevo sbagliarmi. Questa Distanza è confortevole, tra tutte quelle finora percorse - a tentoni, a carponi, in dolorosa prostrazione - io qui mi fermerei. Tra queste agavi e questa sabbia, e questo azzurro deserto disporrei il bivacco, un fuoco e qualche parola decaduta in sussurro. Con calma organizzerei la ricerca della tua vacuità. Sì è vero, mi rinfacciano i tuoi muti contorni, il mio trasandato disprezzo per lo Spirito, per il Cielo gonfio di candore, è stato un macigno nel tuo cuore fremente, nel tuo pensiero inondato di sangue e fede. Ma ti assicuro sono cambiato. Programmerò il mio confino in questa regione, riuscirò perfino a darti un profilo, un'assenza prestabilita. E poi potrò pensare di elevarmi fino al tuo Dio per sfigurarlo con la mia prosaica missione. Le Distanze intanto ruotano in perfetto asse intorno a questo piano che di cartesiano non ha più nulla. Cerco di sviare i miei occhi da te guardando quelle cieche orbite mentre vorticano mentre scorticano l'aria. Ma non ho più fiato. La tua impalpabilità mi annerisce i denti. Mancano le leggi, o forse manca un refolo di vita, per uscirne fuori, per dirimere il paradosso. Le Distanze vacillano collidono stridendo coincidono, mi franano addosso, illudono gli occhi in morta Parata. Rimane solo - lontana - la tua remota risata, la deriva dello spazio, prima ancora della memoria, lo strazio ineluttabile della tua storia già fuggita, già perduta.
Stretto e impervio
collima con l’anima
labirintico estatico
scoperto di passi,
io ti percorro
aperto allo sgomento
delle tue anse,
delle tue buche,
delle tue nascoste mani
protese nelle strettoie
precise sul viso
a lambire le carni
e il profilo di frustrazione.
Io ti rivedo viottolo
nel sentiero delle mie idee
quando nascosi la mano
che aveva ucciso la lucertola
e tu mi invocavi
con le tue crepitanti distanze
e io con la mia colpa
ti percorrevo in fiamme.
Vicolo cieco dinanzi al cielo
affossato di nero
che trascolora in un velo
di carta cenere
e mancate parole.
Camminerò senza muovermi
e tu saprai condurmi
al rinnovato baratro
del brancicare
del biascicare
l’umano dolore
che mi ha condotto a Te.
Euristica dell’Afflizione II
la Malattia
che tutti temiamo
ha eroso
le anime
di malati non malati già in piedi
ed ora mortiferenti
con il loro cupo
fardello di paure
timori di ingerire
un’aria brulicante
di vettori
di virus incubati
mentre uomini
stanno
soli alle finestre di strade vuote
ascoltando in strepitante silenzio
i silenzi di altri uomini
muti
azzannati da
anecoici pensieri
di morte
di vita frantumata
in uno spongiforme
cervello
corroso da dedali
di vie inesplose.
Il Virus
lui sì che parla
attraverso
il vento, i fumi,
i falsi profili dei cadaveri.
Uniti in strada
da un leggero
sciabordio
di dissoluzione
stanno le potenziali vittime,
gli ospiti:
coloro che chiamavano
umanità.
Euristica dell’Afflizione I
anche se
nel busto piegato della sera
trovassi
il senso della memoria,
o la musica perduta
nei sassi delle parole,
avrei combattuto invano.
le case serrate,
le anime rintanate,
i volti secretati,
il tuo sibillino mimetismo
tutto tesse e sfilaccia
un sogno senza sogni.
rimane soltanto
il formicaio dei ricordi
ove s’annida
senza passione
in fremente ristagno
astuto il ragno
dell’afflizione.
Drappo nero
Ho allungato una mano ma tu non c’eri,
ho inseguito il tuo respiro,
come un cervo spossato
attraverso un bosco infinito,
tra un latrare di rami
e il labirinto verde dell’erba.
Un drappo nero ormai ci divide,
come a teatro un buio sipario,
di quelli impossibili ad aprirsi,
separa le storie in fieri
da quelle silenziose in platea.
Sì, è vero, sei qui: ti tocco, ti bacio
colgo l’antica ironia nel tuo sguardo.
Ma sei in un’altra storia,
in un altro imprendibile Avello,
con i tuoi Demoni privati
e le scarnificate memorie.
Racconti di persone che passano
nei tuoi luoghi segreti,
invadendo anche l’intimo rifugio
che hai faticosamente eretto.
Mi parli di presenze, di angeli perduti,
di voci che narrano in silenzio
memorie cancellate dal torpore,
da quel tremolio leggero del Tempo.
Sussurri di impercettibili silenzi,
che ossessionano il rumore dei denti,
il corpo, la pelle, le unghie, la saliva,
l’umana fatica di vivere che stritola.
Babbo, mio fragile tremolante guerriero,
tu mi hai insegnato il suono del vento,
la rorida presenza di Dio in un prato al mattino.
Tu mi hai donato l’ironia del Non Detto,
parole che scavallano frasi e son già sorrisi,
senza dilapidare un singolo suono.
Tu mi hai guardato con l’amore di un Padre,
e io ritrovo la tua aura in quel perduto senso
di un sogno masticato dal mattino,
in quell’ombra in bilico
sul morire del campo visivo.
La tua essenza è intatta,
nessun tremore la fa vacillare.
Il Drappo nero che ci separa
non può offuscare la luce di una Vita.
Sogno nel Sogno
In questa notte d’aprile
gonfia di piogge e ricordi
non so dormire,
la morte mi è accanto
come sogno ostile
come rapida ladra d’ingegni
che seppe sfilarci Pavese
nel culmine acido
di occhi tanatoici
volati via.
Ed io con i miei teneri dolori
penso alla vita
che si duplica nel sonno,
avverto oltre l’oscuro
i febbrili affanni
d’un sogno bambino
che crepita nel ventre
amniotica tempesta
che si dissolve calma
nel sovrastante sogno
dell’incosciente madre.
Sogno nel sogno
neve su neve
ombra dentro al buio.
E finalmente il manoscritto ritrovato in Cantina (e non a Saragozza) vide la luce binaria di Amazon e si aprì al mondo sotto forma di eBuco.
Una raccolta giovincella di poesie, epodi e liste della spesa composte dal 1988 al 1992 che avevo malignamente sversato su fogli di carta velina tramite un Olivetti Lettera 22 appartenuta precedentemente a mia zia Lucia e che feci mia, nel senso hegeliano del termine. Mi furono accanto in quel travagliato e rorido periodo di composizione Bruno Munari e lo Scrondo per accompagnarmi in quella desolata landa che taluni chiamano The Waste Land e talaltri Porta a Porta.
Se disgraziatamente voleste avventurarvi in un tale minareto di sogni infranti potrete accedervi tramite l’Acheronte Digitale che prende il nome di Amazon punto it. Lo potrete raccattare per 99 centesimi che – sappiatelo – impiegherò per acquistare nuovi rimedi tricologici contro la calvizie neuronale che mi sta avvizzendo tutte le idee più fighe. Oppure ci farei un vaso di terracotta da incastrare sullo zenit per raccogliere furori di stelle e passiflore celesti. O anche un brullo cadavere di acciaio inossidabile per confortare le signore sulla via di Damasco verso licenziosi postriboli per sole donne. O almeno una cuffia per la piscina. Amaranto.
Da un po’ di anni si registra l’inesorabile e sotterranea infiltrazione di una una silenziosa milizia in capillare espansione. E’ l’Invencible Armada delle badanti, un brodo primordiale di etnie: ucraine, russe, bielorusse, georgiane, moldave, lettoni, lituane, estoni, azere, armene, kazake, turkmene. Donne nerborute che cullano negli occhi gli spazi siderali delle steppe caucasiche e si cibano dell’artrite dei nostri nonnini.
Si ritrovano in punti precisi della città, abitualmente a pomeriggio inoltrato nei giardinetti di fronte a Palazzo Mancini o sulle panchine del Parco della Pace. Sono una corporazione in continua espansione che comunica cavalcando migliaia di dialetti slavi e pianifica una sottomissione non violenta dell’Occidente per mezzo di una strategia sublime: la sistematica conquista di ogni uomo sopra i 40 anni dotato di codice fiscale e passaporto italiano.
Le maliarde hanno potenti armi conquistatrici: 1) una forza fisica ancestrale con cui piegano facilmente gli omuncoli autoctoni pieni di nevrosi e rimedi olistici, 2) sguardi di acciaio da cui non trapela intendimento nè indecisione, 3) una fittissima rete di relazioni che mettono a frutto con machiavellica sagacia.
Hanno qualcosa di indefinibile e potente nel portamento, un’aura oscura che trascolora in un lirismo solitario e dilagante divenendo impenetrabile corazza contro ogni genere di avversità. Poderose e incrollabili si stagliano contro il vento, e guardandole si ha quasi l’impressione di assistere al manifestarsi di una forza sovrumana. Contrappongono un nerbo, una fierezza che parla di atavica sofferenza, di fatica, di lavoro, di sacrifici, di samovar bollenti, di legna resinosa che scoppietta nel fuoco, di esilio dal secolo, o anche dei versi asciutti di Anna Achmatova.
Come in “Ultimo Brindisi”, una poesiola pubblicata nel 1934. Parole che si attagliano alla pelle di queste donne venute da lontano penetrandone il tranquillo mistero. La durezza di questi versi è la durezza di questa gente:
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.