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Paolo da Mocri (a Paul, per i suoi 50 anni)

PAOLO DA MOCRI

Qui giunsi dall’aspra terra d’Albione
dove l’atro odor di fish and chips
m’avea saturato il rubizzo nasone
e fianco le labbra (che là nomano “lips”).

Io son Paolo da Mocri, anglese
semidio, satiro e commediante
d’auliche note e di fine amor cortese,
di rari velli e stole, artefice cangiante.

Il dolce Febo ed io posammo il guardo
sopra una brulla terra d’antiche torri cinta
San Giovanni chiamavan quel baluardo:
vi presi casa, di sfarzo e d’oro pinta.

Ivi condussi vita da cartamodellista,
sartore, cucitore e gran pantalonaio,
ma giunta sera mi scatenavo in pista
al Bar Italia, effimero pollaio.

Nutrìa passion insana per vino e sigarette,
donne e cortigiane le preferivo al laccio
e mi burlavo delle giunoniche tette
che inalberavan ritte ad ogni omaccio.

Fui d’ironia leggiadra sapido fautore,
del peplo ellenico mi vinse l’eleganza,
di tragedie figurate padre e gran tutore,
d’Andromaca e Cassandra l’erta istanza.

Poi repentino un permutar di rotta
che mi strappò al comodo giaciglio
per una Casa del Tesoro galeotta
nella bucolica Tavullia il nascondiglio.

Quivi divenni esotico cuciniere
ristorator di stomaco e di cuore
ciambellano, maggiordomo e locandiere,
a tutti gli ospiti dispensai calore.

E il mezzo secolo che grava sulle spalle
non mi scalfisce il riso irriverente
non segna il viso a monte nè a valle
non cambia mai l’amor della mia gente.

Io sono fui e sarò Paolo da Mocri
giullare, teatrante e uomo retto
artista e sognatore come pochi
di Dioniso il figlio prediletto.

———————-

(liberamente tratto da Le Troiane di Euripide)
(foto di Andrea Nicolini)

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Off Topics Poesia

Jiaxing

Orrobimbo
sei docile argilla
in mani feroci
e pieghi
e rotei
e tendi
le tue esili membra
come lingua di cane.
Da una ciotola
di riso basmati
dirompente
spastico
silfide bimbo che guardi
lo scheletro
dei tuoi pochi anni
dilapidare
le sue fortune
nel vento di Jiaxing.

Hanno preso il tuo corpo
e piegato come bambù
e stretto
contorto
frenato
rifilato.
E poi denti
d’un salto smaltato
han sfiorato
il tuo sorriso
istituzionale
per i patriarchi
seduti
in consesso
sulgli spalti di Jiaxing.

Tu che correvi
come giovane lepre
nella boscaglia
e sulle risaie
ricolme di sospiri
e caldo foderato
di giovani amanti
acquattati nell’onde.
Tu che filavi
come ripida acqua
leggero
come il sogno a vapore
di una cucina
interrata di soia.
Tu che fischiavi
a molecole di
giovani insetti
e succhiavi l’aria
e poi il sole di Jiaxing.

Hanno avvolto
di sangue e catrame
il tuo esile filo
di pelle e pensieri,
han costretto
ad una pertica
il tuo tremovolteggio
bagnato di talco.
Un’immensa palestra
di pietra e linoleum
ha affilato
i tuoi nervi aguzzi.
E tu …
tu hai ancora
la forza
d’alzare i tuoi arti di gomma
e librarti
e danzare
come snodo di via
come pura follia
nel cielo di Jiaxing.

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Flauto Traverso e Pokemon da catturare

Lo sento arrivare dal ciangottio delle sue nike nere. E’ potente e fiero, come un pokemon leggendario. E’ una nuvola di muscoli rintanati sotto una maglietta nera, aderente come una seconda pelle che rilascia vibrazioni nella luce rarefatta della sera. I jeans dondolano il suo corpo e lo portano in trionfo come un imperatore in un Baccanale. Avanza nel locale che è suo da sempre. Tutto adesso appare impregnato della sua aura che si allarga a dismisura. Lui sa dove andare, lui sa cosa fare, la solitudine è un accidente platonico che non intralcia il suo percorso marziale. Lo fortifica. Una camminata che spezza la serata e spegne il flauto traverso in trasparenza. Tre uomini gli fanno posto al bancone del bar, ombrosa deferenza nel loro farsi da parte, un lento addio a tutta una serie di salatini che passano sotto il suo dominio. Prende possesso del suo posto con la sicumera di un dittatore africano. Afferra lo sgabello e lo fa ruotare vorticosamente come un contrabbasso impazzito, questo per gestire al meglio un patrimonio di chili che si distribuiscono con un’armonia prestabilita, un’ antica esperienza che dispone il culo in avanscoperta: le due chiappe sporgono dalla seduta richiamando le femmine nel locale con un canto ormonale che fa balenare deretani di statue greche e carezze lascive. Da un’increspatura delle labbra, mi rendo conto che la prima fase è finalmente terminata. Come ogni sabato sera le formalità di arrivo sono state espletate con successo. Inizia il suo mestiere di uomo muscoloso che beve da solo. Si guarda intorno studiando le espressioni irrisolte delle donne intorno al bar, le annota mentalmente, studia i punti deboli dove far breccia, guarda il barman e ordina una birra con impercettibile ammiccare, di nuovo guarda in giro facendo selezione di donne e strage mentale di vagine. Respira piano e il suo torace palpita come un’onda sonora accordata con la musica di sottofondo. Poi parla e spruzza doppi sensi, pesanti allusioni già state illusioni. I suoi interlocutori sono fatti di niente, i dialoghi non esistono, esiste solo una forma unilaterale di devozione che si procaccia e anzi pretende con bestialità linguistica. Una grammatica del bicipite che dispone alla genuflessione, all’adorazione tremante. La dialettica del bilanciere rimbalza nel chiacchiericcio come un gas inerte. Lui parla e gli altri devono ascoltare. Lui accenna e le donne devono crollare. Un Fonzie gonfiato, becero e un po’ pecoreccio.

Io sono qui, ma vorrei sparire. Sono come scarnificata di fronte a lui. Un sapore di ruggine mi invade la bocca, come in uno scompartimento di un vecchio treno quando segui il paesaggio che scorre fuori, e d’improvviso ti senti disgustata, ferita a morte senza nessun motivo apparente. Con quel saporaccio che dilaga nel palato, nel naso, nel tempo della memoria. Devo fare qualcosa. Faccio un passo indietro e cerco il nulla nel cesto della lavastoviglie mentre sento addosso il suo sguardo e i suoi stereotipi alla creatina. Sento di essere parte della sua serata, le sue mani unte intorno ai miei fianchi, i suoi doppi sensi grossolani, la sua caccia privata… Mi sta tirando dentro nella rete del suo linguaggio, sento che parla di me, guardo i fornelli spenti, ci passo sopra lo spugna, di nuovo percepisco che sta parlando di me in terza persona.

Lo guardo e sorrido. Penso che la vita si risolva in un equilibrio violato, in una violenza sottile che parte dalle parole e diventa gigantesca, invalicabile. Penso che il Significato Ultimo che tutti ci affanniamo a cercare alligni anche in una battuta volgare, in un gesto gutturale, in un uomo impresentabile come il Pokemon Marione. Penso e… In un attimo sono di nuovo serena mentre infuria la pornografia dei suoi modi di dire. Riesco persino a sentire il flauto traverso in sottofondo… E’ come tornare a respirare.

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Panzòn

botero_uomo-canePanzòn per molto tempo si è coricato presto. A volte così presto che non appena spenta l’abat-jour in finta plastica sul comodino in finta pelle non aveva neppure il tempo di dire a se stesso “mi addormento” che si era effettivamente già addormentato. E mezz’ora più tardi il pensiero che era tempo di addormentarsi lo destava spesso di soprassalto. Allora si affannava a cercare di riporre il magazine leghista che credeva di avere ancora tra le mani ma che aveva riposto mezz’ora prima, e magari brancolando cercava di spegnere l’abat-jour in finta plastica che però aveva spento mezz’ora prima. Poi si rendeva conto che dormendo aveva intimamente maturato ciò che aveva letto, e che anzi nel sonno aveva portato a compimento il processo speculativo introiettandolo nel più profondo del suo ego. E le parole di grandi pensatori quali Borghezio, Calderoli, Bossi junior e senior, divenivano le sue, ed era lui stesso che si ergeva su Pontida radunando il popolo verde con parole carismatiche e colme di pathos.

Il pensiero sopravviveva ancora qualche attimo e non offendeva il suo raziocinio ma pesava sulle palpebre come bossole di terracotta, mantenendolo in uno stato sospeso di dormiveglia. Poi gradatamente questo pensiero principiava a divenire inintelligibile, fumoso, inestricabile: come i ricordi di una sera in cui aveva esagerato con il Cellatica a aveva lascivamente indugiato nel turpiloquio. Allora il contenuto del magazine leghista si staccava da lui, ora erano due cose distinte, e lui era libero di pensarci o non pensarci. D’improvviso recuperava la vista e si stupiva di trovare una calda oscurità che gratificava i suoi occhi stanchi e li cullava in un’aura benigna. L’abat-jour in finta plastica era effettivamente spenta, ora se ne rendeva conto e ne gioiva intimamente.

Ma pian piano quell’oscurità volgeva al maligno, diveniva incomprensibile, inconoscibile, insondabile: in breve lo specchio cupo del suo animo. Ora non c’erano slogan leghisti che potessero gonfiare il suo amor proprio, non c’erano camicie verdi che potessero illuminare il suo sguardo, non c’erano fanfaronate sugli extracomunitari che potessero in qualche modo scaldargli il cuore e farlo sentire gloriosa parte della laboriosa nazione padana. Non c’era niente di tutto questo ma solo il remoto fischio del buio che calava su di lui e tranciava ogni certezza. Una lunga agonia di tenebra che si insinuava silenziosa e lo lasciava senza cartografia, senza orizzonte di ritorno.

Panzòn credette di non essere, ma era. Le sue pantofole perfettamente allineate ne rappresentavano in qualche modo la prova e, sebbene invisibili, era certo che si trovassero ancora ai piedi del letto, in squadra perfetta tra la linea del letto e la fuga di una mattonella. Panzòn capì, ma non riuscì a piangere. Neppure a sospirare. Se ne stette immobile e attese ciò che non sarebbe mai arrivato.

(con amore e infinita devozione a Marcel Proust – con simpatia e disincanto a Panzòn che tuttora è libero di girare per le vie della mia città)

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Off Topics Speculazione

Arnold e Gary se ne vanno, oppure no

garyarnold1Arnold è morto. Gary Coleman l’ha seguito un attimo dopo. Oppure il contrario. In ogni caso la cronaca registra due morti rattrappiti in un’unica minuscola monade, neanche fosse una di quelle offerte 2×1 che balena tra gli scaffali di un ipermercato. Due persone distinte che muoiono nel medesimo istante, roba da chiodi. Arnold, ganasce tranquille e sguardo benevolmente torvo… Arnold mentore di Abramo…. Arnold dai pantaloncini in bilico sulle leggi gravitazionali… Arnold con la guanciotta consumata dal pucci pucci…. Arnold dalla voce profonda… Arnold era anche il locale di Fonzie e Richie… Arnold leggera bruma sulla coscienza di una generazione invecchiata troppo presto, dannazione….
Di sicuro cosa c’è? C’è quel piccolo feretro seppellito nel giardino ben curato del signor Drummond con cui se ne va un pezzo d’infanzia di molti di noi, quel che resta degli eighties, già piallati da tecnologia esponenziale e rimpianti mal calibrati. Chi nutrirà Abramo? Chi puccipuccerà con Kimberly? Chi cazzierà Willis e il suo dogmatismo da bullo di Harlem? Noi stagionato pubblico televisivo ne usciamo ancora una volta con le ossa rotte da questa storia, questo è certo. Arnold era primo di tutto un segno, un’icona, una volontà di rimanere inchiodati alla paleo-gioventù. Noi invecchiati in un’età che non ci appartiene, lui rimasto schiavo del suo sogno di rinascita renale. Arnold e la sua nemesi appunto, Gary Coleman, un tipo che picchia la moglie e investe la gente nei parcheggi dei drugstore….
Arnold e Gary… Due tizi che hanno sgomitato per guadagnare un po’ di respiro cerebrale nel corpo che stavano dividendo… Alla fine l’ha spuntata Sora Morte Corporale, una pupa anoressica che ha sepolto entrambi i contendenti in una fredda carezza, li ha tolti dall’agone donando loro una certa dose di pace.
A dispetto di ogni oblio vorrei ricordarli come due persone diverse eppure uguali, il tao televisivo delle nostre memorie impantanate in un secolo che non vogliamo, in sentimenti che non capiamo, in un’adolescenza che non sappiamo ritrovare. Il bene e il male a portata di mano, fusi e compiuti in un’opera archiviata, finita, sepolta. Eppure un’opera viva, pulsante, sotterranea.
Arnold e Gary se ne vanno, oppure no… siamo noi che li lasciamo liberi.
Riposate in pace dudes. Finalmente uniti. Finalmente divisi.

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Il Tempo divora la Vita

Il tempo divora la vita e unge le palpebre di polvere e amori trasfigurati.

Forse sotto la  pelle c’è già in potenza il mio io-cadente. E comunque cadrò, coperto di polvere, deserto nei pensieri, con un lungo scossone buio.

Il Tempo divora la Vita.

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Esercizi di Stile (omaggio a Queneau) – 1

queneauUn uomo apparentemente magro e visibilmente annoiato entra in un bar e si siede al bancone ordinando un caffè. Il barista, un uomo trasandato e mal rasato, lo serve di malavoglia mentre segue con lo sguardo l’ennesima foglia che volteggia in un cielo senza luce finendo contro la vetrina del locale.

Si potrebbe forse arguire dalla taglia dei suoi vestiti che quell’uomo fosse denutrito. E forse seguendo l’increspatura dei suoi lineamenti anche in un certo qual modo stanco della solita routine. Pare anche, dai rilievi postumi, che abbia varcato la soglia di un bar. E’ quasi certo, ma non assodato, che abbia scelto uno sgabello al bancone per accomodarsi. Chissà, potrebbe aver preso un caffè. Sembra che il barista avesse trascurato il suo look quella mattina, ma dovrebbe essere stato appurato che ha comunque servito il cliente. Rimane da stabilire il ruolo giocato da una foglia in quegli attimi cruciali… Il vetro del bar e la luce rimangono gli interrogativi che vengono subito dopo.

Ma guardate che razza di grissino ambulante che sta entrando in quel bar, e che razza di espressione da snob, quasi quasi volesse schifare il mondo intero, puah. E che ti fa il tizio in questione? Si siede al bancone del bar come se fosse il padrone e ha la faccia tosta di ordinare un caffè, tsè. Quella sottospecie di barbone lurido, stracciato e ispido che risponde al nome del barman naturalmente glielo fa. Ma l’ebete è assente e si perde dietro al gironzolare di non so quale foglia che alla fine va ad ingombrare la vetrina come tutte le altre, come se ci fosse bisogno di prendere nota anche del cielo scuro e dello schifo di tempo che ci attende….

Omino annoiato —> bar: bancone: caffè. Barista (barba + vestiti = argh)  —> caffè: foglia: cielo: vetrina.

L’uomo era decisamente sottopeso e faticava a contenere la nausea per il mondo che lo circondava. Gettando uno sguardo in tralice alle sue spalle varcò con circospezione la soglia di quel piccolo bar di periferia, dove i tram di solito non fermavano mai, e neppure i buoni cappuccini. Così l’uomo optò per un caffè nero e bollente come la sua anima  in quel momento. Il barista raccolse l’ordinazione dall’alto di una divisa devastata dalle macchie di grasso e nicotina. Neppure la sua rasatura avrebbe mai fatto pensare ad un principe azzurro, ma piuttosto ad un bifolco intontito dall’alcol e dal duro lavoro della campagna. E mentre quell’elegantone gli sciorinò il sospirato caffè  si mise a cazzeggiare con lo sguardo dietro ad una foglia in balia del vento. Un cielo oscuro come i presagi di morte lo salutava aldilà della vetrina mentre la sua foglia era finita come doveva finire: ammucchiata con le sorelle e pronta a marcire contro il vetro del bar.

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Hotel Boston Off Topics

Gatta Virginia

Un mattino di chiarissima estate Gatta Virginia se ne sta oziosa sui coppi di una tettoia non ancora arroventata. Si dondola su un mondo immaturo, intorpidita da sogni felini di vibrisse e ossa lunari.
Gatta Virginia sa che anche oggi dovrà, ahimè, mettere qualcosa in pancia per continuare a giocare la partita. Le regole sono fin troppo chiare e l’applicazione delle stesse s’intende ferrea e senza sbavature. La pena prevista è la coda irsuta del Grande Gatto che inesorabile è pronta a scendere dal nubico e a cingere il dissidente issandolo verso un cielo senza lische.
Gatta Virginia segue la molle vita del cortile amplificando la sua ricezione alla ricerca di impercettibili segnali.
Le donne del cortile si affannano a stendere panni, ramazzare le scorie notturne, sistemare vuoti di bottiglia e cartoni vuoti, impilare sacchi di spazzatura e spazzatura insaccata, sospirare e in tralice canticchiare sommessamente nenie che si perdono nella prima aura del mattino.
La nostra gatta registra tutto e analizza ogni singolo evento in funzione di una papabile fonte di cibo da procacciarsi. Ma quasi in sottofondo però, swappando tra un sistema e l’altro con la leggiadria di un googlebot trasognante.
A metà mattinata la diremmo sfiduciata. A ridosso dell’ora di pranzo quasi stremata da tanto vagliare più che dal digiuno.
Un filo di ragno disegna un pertugio di luce riflessa sul suo manto impolverato.
Scorrono le ore e i minuti come cespi aguti…
E corre via quel senso di eternità intonacata che tanto spesso passeggia sotto gallerie e muri sbrecciati e fa sentire indifesi sia gli uomini che i gatti.
E possa anche il sole fingere di non vedere lo scempio di un pomeriggio sperperato in una caccia senza esito, senza prede certe nè cacciatori capaci.
La svolta verso le tre del pomeriggio quando la canicola ruggisce e imperversa su persone e cose e ammorba i pensieri. Gatta Virginia si alza stiracchiandosi e finge di molestare un arbusto. Poi con passo marziano scivola nell’abisso del cortile e si perde sotto le macchine in sosta.
La sua preda è forse la sua stessa indolenza.
O forse siamo noi stessi a cadere nella trappola?

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Cattolica Off Topics Società Web

La casa tra mare e montagna

Da qualche giorno ha avuto inizio su La7 e MTV una campagna pubblicitaria di una società immobiliare come ce ne sono a trilioni, la sedicente “Rete Europa Immobiliare”, con uno spot teso a lanciare il loro nuovo rivoluzionario progetto “Mare Domani”. Gustiamoci il promo:

Naturalmente lo spot ha immediatamente suscitato una fiumana di reazioni: centralini delle tv assaltati, server intasati, blog straripanti, capelli, vesti e svariate parti anatomiche stracciate, articoli su articoli su articoli (cfr. quello del Carlino) e poi ancora bloggate a go-go, una fibrillazione di bloggers da farmi impallidire Technorati e i suoi algidi tags, toccare con mano la serp (search engine result page) di google per credere.
E’ altrettanto ovvio che trattasi di una burla (la campagna è partita il primo aprile) per sensibilizzare la platea televisiva (e la blogosfera, pare) sul tema del disastro climatico a cui stiamo andando scientemente e volontariamente incontro con belle parole e pochi, pochissimi fatti concreti da opporre all’olocausto.
Io ci sto. Raccolgo qualche sparuto concetto. Mi sensibilizzo. E ne parlo.
Mi sono subito chiesto: perchè Santarcangelo? Con tutti i chilometri di coste che ci sono in Italia, proprio ad un tiro di schioppo da Cattolica doveva calare la scure del sarcasmo ecologista degli autori? In effetti è seccante anzichenò essere forzatamente costretti a pensare alla brutale sommersione (il termine benchè orrendo esiste, grazie oracolo De Mauro).
L’immaginario ha sciorinato le sue litanie di immagini in divenire. Ho pensato al mio umile microcosmo. L’egoismo, a volte. E’ come una frustata di cui ti vergogni, ti brucia, ma di cui monetizzi il significato per scongiurare il prossimo colpo. E l’egoismo ti apre gli occhi. Te li spalanca. Mi è balenato il mio domicilio, asciutto luogo di pace e relax, dove germinano amori caldi e deumidificati e dove il sole asciuga financo il pensiero di un bicchier d’acqua, in un sol colpo malsana e umida spelonca per sommozzatori artritici e sirene in menopausa. Ho realizzato. In un attimo. Un mare d’acqua sopra la mia testa.
Mi sono sentito bagnato. Fradicio.
Ho pensato a USA e Australia che si rifiutano di ratificare il protocollo di Kyoto.
Ho ricostruito mentalmente il muro salmastro sopra la mia testa. Di nuovo quella indelicata sensazione di ammollamento. Devastazione idrica.
Usa e Australia. Mare. Hotel tra i flutti. Un canotto. La sirena che mi lancia la dentiera. Acqua. Acqua. Acqua. Canguri che dicono no tra le spume. Ancora acqua in ogni dove. Kyoto e le giapponesine con l’ombrellino da geisha, siliconica barriera contro ogni tipo di infiltrazione. Usa e Australia. E chi altri? Croazia, Kazakistan e Monaco, dice mamma Wiki. Cosa? Ripeto: Croazia, Kazakistan e Monaco. Ora scrolliamoci per un attimo l’angosciante dubbio se l’ultima voce si riferisca al principato o alla Baviera secessionista (siamo già in un futuro sommerso) . Ricapitoliamo. 4 Paesi (e forse un quinto secessionista) che rifiutano di ratificare, categoricamente. E l’Adriatico che incombe come un mantello gonfio di vento.
E allora l’egoismo ha di nuovo parlato.
Imperiosamente.
Firmate quel cazzo di trattato.
E smettiamo di intossicare ogni cosa che bazzichiamo.
Sirene e canguri compresi.

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Liberatelo! (dedicato a Daniele Mastrogiacomo)

Il diaframma delle palpebre si schiude con uno squittio, come un ratto metallico.
Dal buio stralcio forme e arcipelaghi di figure. Ma anche un contorno di albe, una caligine, un neon verdastro che gracchia e piglia strane strade senza badare a nient’altro che all’intermittenza del rischiarato.
La cella contiene pareti. Bestie senzienti, spoglie, inodori.
Qualcuno arpeggia uno sguardo, nascosto, invincibile agli occhi.
Mi sdraio supino. Mi sollevo, guardo un nonnulla, di nuovo poso. Prigioniero dietro specchi senza riflesso, calcinacci oscuri e indecifrabili che s’ammantano di follia e di maculati nascondigli. Incatenato ai miei sensi vacanti. Senza una goccia di mondo. Terapia e supplizio del tempo.
Me ne sto addossato ad uno dei quattro muri e mi tengo aggrappato ad una lieve imperfezione della pietra, mentre in segreto la parete reagisce rilasciando i suoi nervi, facendomeli oscenamente balenare.
Si sono mossi in tacita sincronia, senza il minimo rumore: mi hanno preso e sollevato di peso. Mi hanno alzato nell’aria , quasi un trofeo sbilenco da portare in trionfo. Ecco… Di nuovo… Batte un colpo, tum e ancora tum tum: i loro gravissimi passi? Oppure un timpano dentro la mia solitudine? E se fosse soltanto il pensiero che ciondola di stanza in stanza? O magari una folla che inneggia a …? Dov’è la pietà? E’… Frusciata via… in mille petali di pietra pomice, in questo paese lacerato dai lutti e dall’odio…
Calma. D’ora in poi dovrò serbare le ipotesi: non ho che me a drenare topografie allucinate ed esse saranno di fatto il mio unico spazio transitabile. Dovrò spendere con cura la mia fantasia.
Lo spazio… Devo fare i conti con lo spazio… Questo mio corpo non ha strade: uno, due, tre, quattro, cinque metri quadrati imbottiti di universi inaccessibili, arroventati e deformati da una violenza che illude abilmente le distanze, si prende gioco di loro.
La realtà non è che il continuare a ruminare aria, in autistica, pietrificata asfissia. E quando accade che l’ultimo alito evapori per autocombustione o superno volere, ridipingo tutto a memoria, coi polmoni contratti, senza un briciolo di dignità.

Silenzio, eterna stasi, s’apre quasi alla voce un respiro, non è che lo spazio, fuori, che ride e forse sciama e certo risponde alle giocate di uomini e cose.