Don Delillo ha una sorta di forza virale, una prosa dirompente e metallica che inalbera un meccanismo perfetto, una storia incastonata nella Storia dove ogni movimento è un colpo di cesello, un’azione in slow motion vivisezionata istante per istante. Underworld è un romanzo pantagruelico, per certi versi irritante. Ma la luminosità di alcuni passaggi vale da sola il prezzo del biglietto. Ad esempio questo brano su Edgar Hoover e l’Atomica (nel ’51 mentre assisteva ad una partita di baseball con Sinatra gli viene rivelato che i russi hanno appena fatto esplodere la prima atomica entro i loro confini per testarla):
“Per ogni esplosione atmosferica, per ogni immagine fugace che riusciamo a cogliere della forza bruta della natura, quell’inquietante occhio senza palpebre che esplode sul deserto – per ciascuna di queste cose, Edgar immagina che almeno cento segreti vadano sotto terra, a moltiplicarsi e a tramare. E qual è il rapporto tra Noi e Loro, quanti collegamenti troviamo nel labirinto neurale? Non basta odiare il proprio nemico. Bisogna capire che ciascuno dei due contribuisce alla completezza dell’altro.”
Raffinatezza e genialità senza pari, in poche pennellate abbiamo la poliedricità di Hoover: la sua scaltrezza, la sua innata paura per l’Avversario, la sua curiosità, la sua definitiva propensione a fare sua la diversità per poterla abbattere senza rimpianti. Poi il concetto di yin e yang sulla complementarità degli opposti, quasi un ossimoro nel ragionamento dell’uomo che più di ogni altro contribuì all’edificazione del concetto di “guerra fredda” insinuandosi nell’immaginario di ogni americano e inculcandovi il terrore dei Rossi, la caccia alle streghe del Comunismo che porterà alla più grande operazione di Intelligence del dopoguerra.
Un romanzo che vale la pena leggere: Don Delillo – Underworld (Einaudi).
Apologia dell’assenza
L’assenza è una porzione ben definita della nostra vita. Uno spazio misurato e misurabile con cui fare i conti, prima o poi. Caproni in Res Amissa fronteggiò il dilemma tentando la strada della multisensorialità:
Non ne scorgo più segno.
Più traccia.
Chiedo
alla morgana…
Rivedo
esile l’esile faccia
flautoscomparsa…
L’assenza diviene veicolo di musica e colore attraverso questi versi. Trovo che sia folgorante come Caproni riesca a descrivere la cifra dell’assenza attraverso un termine sinestetico come flautoscomparsa, un composto che unisce la musica di un flauto alla scomparsa fisica di una persona, e in filigrana si intravede anche il diafano pallore di quel viso evaporato. Un neologismo di un’intensità lirica abbacinante, che rimane scolpito nella memoria e circoscrive l’assenza come qualcosa di impalpabile e allo stesso tempo ben delineato. L’insondabilità di ciò che si è posseduto decade in smarrimento, in prognosi impossibile. Rimane la sensazione di aver stretto a sè qualcosa di inestimabile: di tanto prezioso che lo stesso timore di perderlo l’ha dissolto definitivamente.
Il Tempo divora la Vita
Il tempo divora la vita e unge le palpebre di polvere e amori trasfigurati.
Forse sotto la pelle c’è già in potenza il mio io-cadente. E comunque cadrò, coperto di polvere, deserto nei pensieri, con un lungo scossone buio.
Il Tempo divora la Vita.
Un uomo apparentemente magro e visibilmente annoiato entra in un bar e si siede al bancone ordinando un caffè. Il barista, un uomo trasandato e mal rasato, lo serve di malavoglia mentre segue con lo sguardo l’ennesima foglia che volteggia in un cielo senza luce finendo contro la vetrina del locale.
Si potrebbe forse arguire dalla taglia dei suoi vestiti che quell’uomo fosse denutrito. E forse seguendo l’increspatura dei suoi lineamenti anche in un certo qual modo stanco della solita routine. Pare anche, dai rilievi postumi, che abbia varcato la soglia di un bar. E’ quasi certo, ma non assodato, che abbia scelto uno sgabello al bancone per accomodarsi. Chissà, potrebbe aver preso un caffè. Sembra che il barista avesse trascurato il suo look quella mattina, ma dovrebbe essere stato appurato che ha comunque servito il cliente. Rimane da stabilire il ruolo giocato da una foglia in quegli attimi cruciali… Il vetro del bar e la luce rimangono gli interrogativi che vengono subito dopo.
Ma guardate che razza di grissino ambulante che sta entrando in quel bar, e che razza di espressione da snob, quasi quasi volesse schifare il mondo intero, puah. E che ti fa il tizio in questione? Si siede al bancone del bar come se fosse il padrone e ha la faccia tosta di ordinare un caffè, tsè. Quella sottospecie di barbone lurido, stracciato e ispido che risponde al nome del barman naturalmente glielo fa. Ma l’ebete è assente e si perde dietro al gironzolare di non so quale foglia che alla fine va ad ingombrare la vetrina come tutte le altre, come se ci fosse bisogno di prendere nota anche del cielo scuro e dello schifo di tempo che ci attende….
Omino annoiato —> bar: bancone: caffè. Barista (barba + vestiti = argh) —> caffè: foglia: cielo: vetrina.
L’uomo era decisamente sottopeso e faticava a contenere la nausea per il mondo che lo circondava. Gettando uno sguardo in tralice alle sue spalle varcò con circospezione la soglia di quel piccolo bar di periferia, dove i tram di solito non fermavano mai, e neppure i buoni cappuccini. Così l’uomo optò per un caffè nero e bollente come la sua anima in quel momento. Il barista raccolse l’ordinazione dall’alto di una divisa devastata dalle macchie di grasso e nicotina. Neppure la sua rasatura avrebbe mai fatto pensare ad un principe azzurro, ma piuttosto ad un bifolco intontito dall’alcol e dal duro lavoro della campagna. E mentre quell’elegantone gli sciorinò il sospirato caffè si mise a cazzeggiare con lo sguardo dietro ad una foglia in balia del vento. Un cielo oscuro come i presagi di morte lo salutava aldilà della vetrina mentre la sua foglia era finita come doveva finire: ammucchiata con le sorelle e pronta a marcire contro il vetro del bar.
Questo sito potrebbe arrecare danni al tuo computer: peccato che il sito in questione sia google e che la ricerca sia stata eseguita su google. Ehm. Penso che questo screenshot acquisterà valore come memorabilia tra breve… E comunque eseguendo una ricerca con qualsiasi keyword su google in questo momento tutti i siti sono bollati come pericolosi per cui prevedo una caduta verticale del traffico web in Italia, per tutta la durata dello stranissimo fenomeno dovuto sicuramente ad un malfunzionamento del server.
Ah, se cercate “cattolica blog”, fidatevi: questo sito NON arrecherà alcun danno al vostro computer, parola di scout :-)))
Update: in questo articolo su Repubblica viene spiegata la causa del problema: un errore umano dovuto molto probabilmente alla maldestra compilazione della lista dei siti pericolosi che il sito Stop Badware passa a Big G. I siti vengono blacklistati e “bollati” in SERP con la famosa dicitura, solo che questa volta ci sono finiti tutti i siti del mondo. Il Black Out è durato circa 45 minuti. Ora pensate che significa per siti a grande volume di traffico e a carattere commerciale come Amazon ad esempio perdere per quasi un’ora pressochè tutto il proprio traffico web del sabato… Bene, moltiplicatelo per tutti i siti commerciali del mondo…
Ricordo la prima volta che conobbi la conturbante dialettica delle pieces di Harold Pinter: stavo scrivendo uno sgangherato monologo dal titolo “Fatemici Pensare”, una storia di un tizio che amava starsene in casa a rimuginare sui propri pensieri senza contatti con il mondo esterno. Nel frattempo cercavo ispirazione altrove per delineare la psicologia di questo personaggio, e mi imbattei in “Terra di Nessuno”, capolavoro di proporzioni insondabili, con una ferocia dialogica che ti lasciava senza fiato.
Harold Pinter era così: un turbinio di parole contro parole, un crescendo emozionale ibernato in una piccola ampolla, un continuo collidere tra strati coscienti e persone affamate dell’altro, una tensione fatta di carne e parole.
Ora che ci ha lasciati un immenso buco si è aperto, come una carogna che attende. Un vuoto, un silenzio, un’afasia senza suoni. Vorrei ricordarlo con un celeberrimo dialogo tratto da “Terra di Nessuno”:
“Sei in terra di nessuno. Che non si muove, non cambia, non invecchia, ma che resta per sempre gelida e muta.”
“A questo io brindo.”
Una sinistra che non c’è più
Per me che ho sempre raccattato valori e punti di riferimento nel grande forziere ideologico della sinistra italiana è oltremodo amaro dover ammettere che non esiste più una sinistra italiana e che quel forziere è desolatamente vuoto. C’era una volta la sinistra. Desertificata dal berlusconismo imperante, falcidiata dall’estremismo bertinottiano, disgregata dal più bieco e opportunistico mastellismo, sputtanata dalle nuove tangenti del Sud e dall’inettitudine dei suoi leader, dilaniata dalle continue lotte intestine di correnti e imbonitori dell’ultima ora, sottomessa da una cronica mancanza di figure carismatiche: la sinistra saluta educatamente e si disintegra con garbo davanti ai nostri attoniti occhi.
E noi che faremo? Faremo come una monade leibniziana senza porte nè finestre. Saremo impenetrabili alle vicende del secolo, ci chiuderemo nel bozzolo e tesseremo con ingordigia il placido scorrere delle nostre vite, evitando la pagina politica dei quotidiani, le foto dei grandi leader che dopo aver perso elezioni, credibilità e mezzi sono ancora lì, dopo anni di sconfitte e di parole al vento sono ancorà saldamente lì, abbarbicati alle loro poltrone, ancora lì a ramazzare il nulla, a ipotecare sofismi e demagogia…
Saremo lontani da loro. E apetteremo mille anni un nuovo Berlinguer che non arriverà mai.
Meteopatia
Indubbiamente questa enorme mole di cieli grigi ha raddrizzato molte palpebre abituate a socchiudersi sotto i calci del sole. Ma la pioggia a lungo andare scava un pertugio nei cuori più solidi. E rischia di minare quanto di buono ha fatto l’estate, il caldo e il sale riarso del mare. Rivoli d’acqua che corrono impuniti ai nostri piedi ci tendono mille trappole liquide a cui non sappiamo trovare un rimedio asciutto.
E piovendo impariamo a coesistere con una specie di macchinoso malessere che si ricompone in noi come un puzzle automatico. Un dolore sottile e impunito che ci tiene in casa, che alza gli sguardi al cielo e ritorna sporcato di caligine. E se fosse davvero quella polvere impalpabile che tutti noi abbiamo rincorso da piccoli come saette tra le felci piegate dal vento? E se fosse questa invisibile mano a tenerci al laccio e a renderci schiavi di qualcosa che non esiste se non in rumore di acqua che cade.
Amiamo dire che il suono della pioggia ci rilassa mentre sferza le mura di casa, e quieta la nostra sete di movimento. Ma nulla è più ipocrita di voler imbrigliare un mostro in un corpo di fata. Nulla rimane quando la pioggia versa il suo lento veleno se non il dilagare d’amaro nelle bocche, nelle gole, fino al salto finale, fino al più profondo acquitrino del nostro essere.
Dieci petali che cadono
Forse il cristallo dei tuoi occhi ha troppo presto seppellito la luce, o forse noi l’abbiamo chiusa troppo lontana da te. In certe assenze che chiamavamo i “mancati giorni”, dal titolo di quel libro.
Ci lasci così, senza il riparo di una battuta. Una tua parola in tralice, come volo leggero d’ironia che accendeva sorrisi e recava un turbinio di increspature negli sguardi più torvi. Ci lasci senza neppure darci il tempo di salutarti, solo domande, ora, davanti a te, e un vuoto a correre via. Un corteo rarefatto di ricordi e di domande inesplose.
Eri stato sedotto da Ordinamenti Superiori e filavi sospeso, cavalcando la tua levità, vestendo con azzurra incoscienza i tuoi paramenti angelici. Seguivi le parole dei Santi e ne studiavi i balsami per l’Anima. Noi chiusi nelle nostre vite, mai sfiorati da una Rosa così atrocemente mistica.
Dieci petali che cadono. Con precisa lentezza. Uno a uno. Eccoli nella notte. Non un fiato. Non un suono. Solo quel fatidico sfiorire.
Solo quel cadere silente che solo tu senti.
Ciao Bert. Perdona i mancati giorni.
Seguendo il fiume
Seguendo il fiume per 30 anni a ritroso mi ritrovo con una mano di primate nella mia, un paio di incisivi in meno, la patta aperta, la camicia del piccolo mafioso e i calzini blu con i sandali aperti.
Mia sorella solare e floreale, ride ancora così.Lo stivale però era fin troppo aggressivo. Poi mi accorgo di straforo che in realtà è un calzino traforato dello stesso colore del sandaletto. Che finezza.
Cita dal canto suo era maledettamente fotogenica.
30 anni spesi bene. Per tutti e 3. In fin dei conti.