Panzòn per molto tempo si è coricato presto. A volte così presto che non appena spenta l’abat-jour in finta plastica sul comodino in finta pelle non aveva neppure il tempo di dire a se stesso “mi addormento” che si era effettivamente già addormentato. E mezz’ora più tardi il pensiero che era tempo di addormentarsi lo destava spesso di soprassalto. Allora si affannava a cercare di riporre il magazine leghista che credeva di avere ancora tra le mani ma che aveva riposto mezz’ora prima, e magari brancolando cercava di spegnere l’abat-jour in finta plastica che però aveva spento mezz’ora prima. Poi si rendeva conto che dormendo aveva intimamente maturato ciò che aveva letto, e che anzi nel sonno aveva portato a compimento il processo speculativo introiettandolo nel più profondo del suo ego. E le parole di grandi pensatori quali Borghezio, Calderoli, Bossi junior e senior, divenivano le sue, ed era lui stesso che si ergeva su Pontida radunando il popolo verde con parole carismatiche e colme di pathos.
Il pensiero sopravviveva ancora qualche attimo e non offendeva il suo raziocinio ma pesava sulle palpebre come bossole di terracotta, mantenendolo in uno stato sospeso di dormiveglia. Poi gradatamente questo pensiero principiava a divenire inintelligibile, fumoso, inestricabile: come i ricordi di una sera in cui aveva esagerato con il Cellatica a aveva lascivamente indugiato nel turpiloquio. Allora il contenuto del magazine leghista si staccava da lui, ora erano due cose distinte, e lui era libero di pensarci o non pensarci. D’improvviso recuperava la vista e si stupiva di trovare una calda oscurità che gratificava i suoi occhi stanchi e li cullava in un’aura benigna. L’abat-jour in finta plastica era effettivamente spenta, ora se ne rendeva conto e ne gioiva intimamente.
Ma pian piano quell’oscurità volgeva al maligno, diveniva incomprensibile, inconoscibile, insondabile: in breve lo specchio cupo del suo animo. Ora non c’erano slogan leghisti che potessero gonfiare il suo amor proprio, non c’erano camicie verdi che potessero illuminare il suo sguardo, non c’erano fanfaronate sugli extracomunitari che potessero in qualche modo scaldargli il cuore e farlo sentire gloriosa parte della laboriosa nazione padana. Non c’era niente di tutto questo ma solo il remoto fischio del buio che calava su di lui e tranciava ogni certezza. Una lunga agonia di tenebra che si insinuava silenziosa e lo lasciava senza cartografia, senza orizzonte di ritorno.
Panzòn credette di non essere, ma era. Le sue pantofole perfettamente allineate ne rappresentavano in qualche modo la prova e, sebbene invisibili, era certo che si trovassero ancora ai piedi del letto, in squadra perfetta tra la linea del letto e la fuga di una mattonella. Panzòn capì, ma non riuscì a piangere. Neppure a sospirare. Se ne stette immobile e attese ciò che non sarebbe mai arrivato.
(con amore e infinita devozione a Marcel Proust – con simpatia e disincanto a Panzòn che tuttora è libero di girare per le vie della mia città)
Una risposta su “Panzòn”
Davvero scrivi benissimo, io non lo so dire bene come te però sento che dovresti fare lo scrittore, se lo sei già scusami, ma non mi pare dalle notizie che ho su dite. In ogni caso ti ho lasciato la mia email, mi piacerebbe che tu mi contattassi!
ciao
Antonella (Rimini, di me ti ricordiiii)