Mi è mancato questo blog. Una settimana che non posto ed è un malessere fisico quello che mi riporta a scrivere qui, una sorta di dilaniante crisi d’astinenza cui credo non vi sia rimedio se non il postare.
Già ma postare su cosa? Da quando ho riaperto l’hotel ed è iniziato il grande afflusso di vacanzieri i miei tempi si sono ridotti all’osso e non ho più tempo, ahimè, per curiosare in ogni remoto angolo di Cattolica. Come ogni estate mi rintano in questo microcosmo fatto di orari scanditi dai 3 grandi assiomi giornalieri: la colazione, il pranzo e la cena. Questi sono i 3 cardini intorno a cui ruota la mia realtà, una sorta di matrix in candeggina. Mi sono reso conto di una cosa. Ogni santa giornata è imperniata su come nutrire i miei ospiti. Quale cibo e in che misura.
E’ un collasso di orizzonti, di distanze percorribili. Il cibo invade ogni recesso speculativo, ogni fragile anfratto teoretico. E il cibo è nient’altro che l’eterna rincorsa del “come procacciarselo”. S’attorcigliano i metri intorno a me. I miei passi tornano ogni minuto su se stessi, calcando lo stesso percorso, a ritroso, negli stessi identici istanti di ieri, di un anno fa, in un circolo vizioso che potremmo definire “il loop dell’albergatore”.
Eppure l’hotel è un piccolo acquario affascinante, ha i suoi tesori nascosti, le sue porticine incastonate tra i coralli e a saperle aprire ci si ritrova in una culla di morbida eternità. Come passare il cordless con la telefonata della figlia di una coppia di svizzeri che, dopo l’ennesimo tentativo, annunciava trionfalmente di avere superato l’esame per la patente con annesso boato di gioia della genitrice fonoparlante. O l’eburnea insalata di radicchio che stilla una goccia di rorido umore soltanto per te, nell’attimo stesso in cui replica ogni tenue minuscola foglia corteggiando una bresaola paonazza in un surrogato di letto trentino. O l’amico Corvo, piovuto a far due chiacchere tra l’aperitivo e la cena, che non sa resistere al richiamo di un pallido lombrico nel vaso dei gerani e mitraglia via un grido di terra e radici sulla mattonella appena ramazzata. O ancora l’Ernesto che rincasa da spiaggia con la ciabatta distrutta dall’ennesima partita di bocce e di sabbia spesa nel vuoto di una folata di garbino.
Cosa poter scrivere ancora? Mastico questa tastiera mentre fuori ruggisce un afrore di mille estati cattolichine e il loop dell’albergatore stringe cervello e cuore.
L’estate, i suoi ripidi inganni.
Siamo solo operatori turistici in un algoritmo che ci sovrasta.
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