Al posto dell’attuale Coop, a poca distanza dalla rotonda con la dicitura “benvenuti a Cattolica”, sorgeva un tempo, verso gli inizi degli anni ’70, una grande costruzione in disarmo: la vecchia fornace. Era un edificio abbandonato a se stesso, un immenso gigante privato di volontà senziente, coricatosi alle pendici del Monte Vici e mai più risvegliatosi.
Noi con la cristallina incoscienza dei bambini ci si andava a giocare, a immaginare storie, a costruirsi mondi paralleli. Eravamo il gruppetto dei 3 Marchi, gli astronauti dello spazio. La fornace mutava il suo aspetto: da fatiscente rudere diveniva avanzatissima astronave, molto spesso diretta su Plutone, con compiti esplorativi e scientifici, ma non si escludevano intenti colonialistici, dipendeva dal contesto narrativo. Uno dei 3 era un abile disegnatore, e si decise di eternare le avventure cosmiche in un fumetto con tiratura stimabile in nr. 1 copia, da far girare in classe, con molta attenzione e delicatezza. Il fumetto era ben fatto, ricordo che il Marco disegnatore, sfruttando la sua posizione strategica, riusciva sempre a mettersi in buona luce nella trama e spettava sempre a lui il colpo di grazia verso la temibile entità venusiana che infestava i condotti d’aerazione della navicella, o il primo passo sulla superficie vergine di un nuovo pianeta. Il secondo Marco era più orientato sui testi e si alternava con me al timone della sceneggiatura.
Più tardi superammo la fissa per lo spazio e con l’adolescenza arrivò il trip delle detective stories, e qui superammo noi stessi perchè fondammo una vera e propria Agenzia di Investigatori Privati (AIP) con sede nella mia attuale magione, la casa dei nonni, a quei tempi. Si organizzò tutto: un reparto operativo, un ufficio amministrativo con tanto di segretaria (Caterina, precettata in classe), equipaggiamento di prima scelta con lenti, bombette puzzolenti, schedari e taccuini. Approfittammo persino del ciclostile scolastico per stampare i nostri volantini pubblicitari coi quali invademmo le caselle postali di mezza Cattolica, recapitandoli a mano e dividendoci i vari quartieri. Naturalmente non si batteva chiodo e allora decisi di dare una mano al destino inventandomi qualche caso. L’AIP passò dunque dal caso del Diamante rubato a quello del Cagnolino scomparso, per sgominare infine una Banda di falsari che aveva il proprio quartier generale in un minigolf poco distante dalla sede AIP e che astutamente non si fece trovare durante l’irruzione.
Per celebrare i brillanti successi si tenne un grande ricevimento a cui furono invitati i compagni di scuola. Ricordo che per assecondare l’atmosfera di mistero avevamo organizzato trappole e sorprese, come nel percorso di un tunnel dell’orrore. Nel bel mezzo della festa però qualcuno pensò bene di dar fondo a tutto l’arsenale di bombe puzzolenti e dall’alone di mistero si passò al fetore irrespirabile con miserevole fallimento del ricevimento e di tutti i marchingegni che avevamo approntato.
Ancora oggi, quando racconto una favola a Elmore, e all’improvviso mi distraggo o mi perdo tra le pieghe della trama in divenire, lei mi intima imperiosamente “allora babbo?” e vedo i suoi occhi assetati di favola e poi un attimo dopo luccicare di fanciullesca e purissima gioia alla ripresa del racconto.
Allora rido con lei e ripenso a quei tempi, quando fui astronauta e poi investigatore, e avevo quegli stessi occhi assetati di favole, di spazio, di mistero, occhi che solo i bambini possono avere.